Cerca nel blog

domenica 24 dicembre 2017

Santa provvidenza



Caro Santa,

intanto scusa se ti chiamo con il nome con cui ti conoscono nel mondo, ma questa letterina riguarda l'Internazionale e pertanto sento la necessità di eliminare i confini linguistici perché questo affare è importante per tutti gli appassionati del pianeta.

Forse non siamo stati buoni quest'anno: abbiamo trattato in maniera troppo drastica e scettica la stagione che stava nascendo, anche se molti di noi lo hanno fatto certamente sulla base di qualcosa.
Alcuni di noi hanno gufato la squadra quando vinceva, solo per potersi guadagnare i 5 minuti di celebrità nei panni dei Grilli Parlanti che a un certo punto dell'anno sfruttano la giornata storta per dire "Io ve l'ho sempre detto, sono quello che ne capisce di più e voi stronzi siete i gonzi che andavano dietro alle chimere".
Altri hanno reso l'ultima estate un inferno tra pesantezza, isterìa, difficoltà cognitive, incapacità di separare le cose negative dalle cose positive.
Dall'altra parte però abbiamo ripopolato San Siro, abbiamo applaudito la squadra anche se sconfitta, abbiamo celebrato con orgoglio il derby vinto ed i risultati positivi negli scontri diretti; ci siamo innamorati di Spalletti, ci siamo infatuati di Skriniar, ci siamo resi conto del valore di Icardi, abbiamo perfino rivalutato D'Ambrosio e Candreva.

Insomma, la nostra parte l'abbiamo comunque fatta ma ora abbiamo bisogno di una mano.
L'albero addobbato è il termometro della nostra passione: quando lo abbiamo iniziato eravamo primi in classifica grazie ad un rendimento oltre le proprie possibilità ed una buona dose di eventi esterni girati nel modo giusto.
Oggi che l'albero è qua per farlo vedere soprattutto a te, abbiamo perso per strada un paio di rami finiti negli spogliatoi di squadre di provincia e c'è chi comincia a dire che non ci meritiamo gli addobbi, che l'albero si sta seccando, che era nato morto ed è cresciuto grazie ad un miracolo irripetibile che sta svanendo il suo effetto.

C'è chi comincia a metterci le sciarpe biancazzurre perchè si è messo in testa che l'albero della Lazio è scintillante, perfetto, con una marea di regali ai suoi piedi e destinato a crescere verso l'infinito e oltre.

Abbiamo bisogno di una mano per non ritrovarci tra un paio di mesi a doverci arrendere ai disfattisti ed ai becchini dandogli la soddisfazione di pensare che il loro modo di vivere la fede calcistica sia quello giusto.

Abbiamo bisogno di soluzioni, caro Santa: abbiamo la necessità di trovare sotto l'albero un'idea o un rinforzo che ci tolga dalle secche di un attacco monocorda che ha svelato l'impossibilità di essere affidato per nove mesi alla vena o alla condizione di Candreva e Perisic. 
Abbiamo bisogno di smettere di considerare Brozovic o Joao Mario delle soluzioni, perchè le cose non stanno così: per motivi diversi, entrambi si sono guadagnati un punto di domanda sopra la testa, là dove deve esserci un punto esclamativo solido e pesante.
Abbiamo bisogno di guardare la panchina e non vedere il solco abissale di qualità che c'è rispetto a chi calpesta l'erba, né vedere i troppi posti vuoti che la caratterizzano.
Abbiamo bisogno di trovare nuove idee trascinanti per tenere a galla anche le vecchie certezze, perchè quando le cose non riescono il livello si abbassa e le cose semplici diventano complesse equazioni, il pallone da calcio diventa una palla da bowling, ogni metro percorso diventa una maratona, l'Udinese diventa il Barcellona e il Sassuolo diventa il fantasma del Natale passato.
Abbiamo bisogno di reputare anomalo che Skriniar sia il terzo cannoniere della squadra, saltando a pié pari un centrocampo che finora la porta l'ha vista da lontanissimo o l'ha incontrata per un fugace saluto senza alcuna confidenza.


Ci servono soluzioni, caro Santa: forse dall'altra parte del Naviglio ti stanno chiedendo i miracoli che non ti spettano, ma da questa sponda noi abbiamo bisogno solo di poter cambiare strada quando la carreggiata comincia a farsi tortuosa.
Che il tuo vero nome sia Jindong, Steven, Piero, Walter o Luciano fai in modo che questo Natale diventi l'occasione per convincere tutti che al futuro si può ancora guardare con la stessa fiducia.
Natale è domani, ma per noi è più importante che lo sia a maggio.

Con stima,

Fulvio Santucci


lunedì 4 dicembre 2017

Foto di gruppo



Mamma mia.
Adesso lo dico proprio con lo stupore di chi si ritrova le proprie convinzioni già abbastanza rosee addirittura soverchiate da ciò che ha visto: mamma mia.

Inter-Chievo doveva essere una partita già complicata di suo, resa ancor più ingarbugliata dalla vetta a portata di una squadra nota negli ultimi anni per riuscire a perdere tutti i treni possibili: è stato un massacro, una sorta di pandoricidio pre natalizio.
Era l'ennesimo esame, la rinnovata prova del nove dove alla fine 9 (ma forse anche di più) potevano essere i gol segnati da Icardi e compagnia, ma strada facendo è diventata soprattutto la prova dei nove: i 9 titolari su 11 che si sono abbattuti sul Chievo come Katrina su New Orleans (solo il Napoli contro il Benevento ha avuto, dati alla mano, una produzione offensiva paragonabile) e che sono tutti reduci dalla disgraziata stagione 2016/17.

Riflettiamoci un attimo: riavvolgiamo il nastro, torniamo a fine luglio e facciamo finta vi sia stato anticipato che a dicembre avremmo ospitato il Chievo schierando in difesa Santon Davide, Skriniar Milan, Ranocchia Andrea e D'Ambrosio Danilo.
Le reazioni sarebbero state nell'ordine: risate, scherno, pernacchie, incredulità, ira, depressione, nichilismo: non si può barare qua, sappiamo tutti che sarebbe andata così.

Invece il Santon visto per un'ora ieri è la cosa più simile al Santon visto contro il Man United di CR7 e Ferguson nell'ormai lontanissimo febbraio 2009; su Ranocchia dovremmo aprire un capitolo a parte, probabilmente incentrato sulla psicologia, nel vedere un calciatore praticamente carbonizzato in questa piazza giocare benissimo e dichiarare poi "mi sembrava di stare al campetto con gli amici".
Siamo all'imponderabile, vanno chiamate in causa le congiunzioni astrali come del resto per tutta la domenica nerazzurra iniziata col Milan che diventa parte della storia del Benevento prendendo gol al 95' dal portiere e finita con l'Inter che polverizza il Chievo, squadra che oggi ha 20 punti e che si salverà probabilmente tra febbraio e marzo, tirando 39(!!!) volte verso la porta di Sorrentino.


La domanda è lì a sfrigolare in attesa di trasformarsi in una risposta inattaccabile: com'è stato possibile che questa squadra sia arrivata al 3 dicembre inanellando il terzo miglior rendimento nell'intera storia della Serie A? Quanto c'entra Luciano Spalletti in questa meravigliosa follia?
Luciano da Certaldo è certamente il maggior responsabile di questa scintillante Inter autunnale, di cui probabilmente non stiamo cogliendo la grandezza perché deviati da un campionato che è interpretato ad altissimo livello anche da altre quattro squadre.
Lui ha impresso un cambio di filosofia nel gioco, lui ha coinvolto giocatori che erano a pezzi e li ha resi parte di un mosaico, lui ha ribadito gli obblighi sindacali a cui si è sottoposti indossando la maglia dell'Inter: giocare sempre per fare risultato, mai pensare che basti il compitino.

Ne fui sicuro già dopo una settimana di precampionato: l'idea di Spalletti era vincente sul lungo termine, nonostante la qualità della rosa non fosse la migliore del campionato. 
Non avrei però mai potuto credere a questo rendimento, contornato da partite giocate in maniera assurdamente superba come la prima ora di Inter-Sampdoria e come l'ultimo Inter-Chievo in alternanza con partite giocate in maniera tremendamente cazzuta come Napoli-Inter.
Già era promettente una squadra in cui tutti sapevano cosa fare, vera svolta stagionale, ma ora abbiamo avuto la prova che tutti possono anche sapere come fare le cose nel miglior modo possibile: l'azione del 4-0 di Skriniar, ad esempio, contiene almeno 5 cose fatte in modo perfetto da 4 diversi giocatori.
E anche se il Chievo non ha pescato certamente la sua giornata migliore, i meriti di questa squadra che di casuale non ha più nulla rimangono saldi.

Quindi, cosa possiamo mettere sulla bilancia per riequilibrare tutta questa positività? Per molti c'è una frustrazione, lecita, che deriva dall'aver fatto 39 punti su 45 ed avere ancora un margine troppo risicato sulla quinta forza del campionato.
Abbiamo scelto forse l'anno peggiore per decidere di diventare una squadra che vince, è pacifico, ma dall'altra parte io non sono convinto al 100% che un vantaggio di 10-12 punti sulla zona Champions sarebbe un sinonimo di tranquillità.
Conosco l'Inter e conosco purtroppo come le mie tasche i suoi cali di tensione: voi stessi, sono sicuro, pensate alla stagione in modo guardingo e attento aspettandovi dietro l'angolo l'episodio che la svolta in negativo. Il motivo è lo stesso, avete timore dell'Inter che si rilassa e perde la trebisonda.
Ecco perché un campionato senza tregua, senza il minimo margine di errore, senza la possibilità di poter concepire un passo falso inaspettato può diventare combustibile per un gruppo che ha dimostrato per 15 volte la sua repulsione verso la sconfitta.

Nessuna Inter vincente ha mai potuto abbassare la guardia, anche quella più vincente di tutte avrebbe potuto perdere tutto a maggio, invece non è andata così.

Proprio quell'Inter è stata l'ultima a mettere piede a Torino, sponda Juventus, da prima in classifica: la storia si ripeterà sabato, per la prima volta allo Juventus Stadium.
Nelle mie convinzioni il piano partita di Spalletti non sarà affatto quello di Napoli, credo invece convincerà i suoi ragazzi che fare bottino pieno anche contro di loro che di big match in Serie A ne sbagliano pochi è possibile se ci si crede.
Può evidentemente andare male perché stiamo parlando di una squadra con risorse superiori ed un vissuto da dominatrice: noi possiamo essere loro nel 2011-12, ma loro sono cambiati in meglio senza aver mai tolto le mani dal tricolore.
Però può anche andare bene, perchè se c'è un anno in cui la Juventus non sembra di anni luce avanti a tutte le altre è proprio questo.

Stiamo leggeri, con la libertà di sognare e la consapevolezza che non stiamo ancora giocando per il bersaglio grosso.
Intanto però, scattiamoci una foto per autocelebrare una ritrovata voglia di Inter da parte nostra e da parte di chi va in campo.
Una foto di gruppo, per non dimenticarci mai che le cose migliori accadono quando tutti remano dalla stessa parte.




lunedì 27 novembre 2017

La forza dell'abitudine


Non ne potevo veramente più della retorica della Pazza Inter.
Come disse un giorno il bravo Giorgio Crico, la Pazza Inter è (o spero sia stata) un chiaro espediente narrativo per giustificare una marea di vittorie arrivate senza logica, a schemi saltati e dopo una partita il più delle volte compromessa da errori marchiani e scarsa attenzione: niente di più vero.
Non ne potevo più soprattutto perché una squadra pazza è una squadra inaffidabile e nel contesto di un campionato che ha degli obiettivi, questo è un problema che è stato troppe volte sdoganato da caratteristica nativa dell'Inter ed in accezione erroneamente positiva.

Bene: la Pazza Inter, se qualche entità divina vuole, ce la siamo levata dalle scatole. O almeno messa in naftalina per un terzo di questa stagione, che è già qualcosa.
L'Inter è cambiata, è diventata abitudinaria: nel male lo è stata spesso in questi ultimi anni, nel bene praticamente mai (no, gli 1-0 di Mancini versione 15/16 non erano la buona abitudine che pensavamo allora). Lo scrissi settimana scorsa, l'Inter 2017/18 con una media di due punti e mezzo a partita non è un caso: è il prodotto della sua nuova identità, fatta di pregi e di difetti che ai miei occhi iniziano ad essere qualcosa di seriale, qualcosa che gira intorno agli stessi fondamenti.
"Per la ripresa serve stabilità" è una delle massime che maggiormente ho letto quando si è parlato di come l'Italia dovrebbe uscire dall'interminabile crisi economica: ecco, credo che per l'Inter valga, o sia valsa, la stessa identica cosa.

La stabilità che parte dalla visione che i tifosi avevano alla vigilia di Cagliari-Inter: in un sondaggio che ho lanciato su Twitter, le centinaia di votanti hanno scelto l'opzione "Vittoria lacrime e sangue" anziché temere il crollo piuttosto che la trappola, senza peraltro credere alla vittoria facile.
Per me è stato un segno tangibile di come questa Inter stia iniziando ad essere inquadrata e contornata precisamente dal suo popolo: una squadra che non si può prevedere dominante in lungo e in largo, del resto non sembra affatto attrezzata per farlo, ma una squadra di cui ci si fida quando c'è da portare a casa il risultato.
Primo elemento ripetitivo, di cui credo faremmo volentieri a meno: le partenze contratte in casa delle squadre che giocano per la salvezza. E' accaduto a Crotone, a Verona, in parte a Benevento, soprattutto a Bologna.
Sarà il rossoblu della maglia, ma la prima mezz'ora dell'Inter alla Sardegna Arena mi è sembrato quasi un copia/incolla della prima frazione di gioco al Dall'Ara di due mesi fa: transizione horror, fasce vulnerabili, squadra schiacciata, centrocampo fagocitato dal corrispondente reparto avversario e la concessione all'avversario delle sue armi migliori (nel caso del Cagliari la profondità ed il lancio lungo a premiarla).
Oltre ad una super parata di Handanovic che ha riaperto per qualche minuto il fronte dell' "Inter salvata da Handanovic".

Pensate che follia: un portiere che para. 
Come se il vostro forno, sorpresa delle sorprese, cuocesse i cibi per la cena e voi, in un momento di chiaro blackout cognitivo, pensiate che il forno vi ha salvato la cena invece di avervela creata.
Questo del farci sorprendere dalle piccole nel loro campo è comunque un pessimo vizio che facciamo fatica ad abbandonare: è confortante il fatto che Spalletti sia sempre particolarmente reattivo nel capire ed agire, questa volta addirittura schierandosi a specchio con il Cagliari per contenere i sardi nel momento di massimo sforzo.

Poi ecco il secondo elemento di stabilità: l'Inter che va in vantaggio. 

Se una parte di voi si sentiva nelle viscere che il primo gol lo avrebbero siglato i nerazzurri, non c'è nulla di casuale: è successo sabato per la decima volta, solo tre invece le situazioni in cui è accaduto il contrario. 
E poco importa se il Cagliari avrebbe forse meritato maggiormente la prima marcatura, perché uno dei vantaggi dell'avere Mauro Icardi è il fatto che c'è sempre un'ottima possibilità che converta in gol la prima palla che gli capita tra i piedi.
Pensare che c'è chi si è fatto un nome ed un pubblico attraverso le invettive contro un giocatore che è già nella storia dell'Inter e della Serie A prima di aver compiuto 25 anni, la dice lunga sulla vergognosa epoca in cui siamo comunicativamente inseriti.

Ma tant'è, Icardi è un meraviglioso sovversivo. 
Gli si contesta di segnare solo con le piccole? Tripletta nel derby. 
Gli si contesta di non aiutare la squadra? Lui se la mette sulle spalle, la striglia dopo la più bella ora di calcio mai giocata negli ultimi 5 anni (Inter-Sampdoria), proprio sabato fa autocritica sulla prima mezz'ora dopo che la squadra ha conseguito il miglior rendimento parziale della storia nerazzurra.
Gli si contesta di non distribuire abbastanza i gol? Lui segna a tutte le squadre di A, eccezion fatta per il Benevento.
Gli si contesta di non segnare in trasferta su azione? Lui piazza la doppietta a Cagliari senza calci piazzati.
Spero che presto gli si contesti il fatto di non portare l'Inter in Champions, hai visto mai che diventi benaugurante.

Dal gol in poi, l'Inter di Cagliari ha sostanzialmente gestito la partita secondo il proprio ritmo e la propria volontà: nulla di sorprendente, visto che l'Inter è la sola squadra in Serie A assieme al Napoli che non ha mai perso un solo punto quando si è trovata in situazione di vantaggio.

Un'altra abitudine molto gradita: gestisce magari senza strafare, ma non si disunisce mai e mai stacca la spina troppo in anticipo a meno che le gambe non girino proprio più.
In base a quanto sopra, faccio molta fatica a star dietro a chi farnetica di fragilità psicologica alla luce di una squadra che non perde mai un punto quando conduce e ne recupera sempre almeno uno nelle poche volte che va sotto, oltre a constatare che sono già 14 le squadre del suo campionato rimbalzate all'ingresso quando hanno provato a fare bottino pieno sulla sua pelle.


Ogni tanto questa noiosa ripetitività di tendenze viene rotta da qualche inatteso coup de théâtre: ad esempio Brozovic, che normalmente ci mette un paio di mesi per entrare in partita, stavolta ci mette due minuti segnando un gol pure pregevolissimo.
Potenzialità da miglior giocatore del reparto e una discontinuità che oggi è delizia e domani e dopodomani è croce: questo sì, è un bel punto di congiunzione con la nostra storia che sembra debba necessariamente annoverare in ogni suo ciclo un giocatore di questo genere per darsi un senso.
Un altro colpo di scena, decisamente meno esaltante, è Skriniar che non fa miracoli tipo trasformare la banda di svagati lanzichenecchi versione 2016/17 in una difesa con i controfiocchi. Anzi, stavolta decide di farci vedere che ha una sua umanità quando Pavoletti (con un gran movimento, in verità) gli sfila alle spalle per movimentare un po' il finale.
Finale che ad ogni modo non sembra affatto destinare il canovaccio già scritto ad un destino diverso: i peggio cantastorie del pensiero italico romanzeranno il giorno dopo di VAR ad orologeria e di Cagliari castrato ingiustamente per levargli il vento del pareggio in poppa, ma la verità è che oltre ad essere il terzo gol di Icardi consentito da qualunque regolamento in auge (il perché può dettagliarvelo Il Malpensante.com) arriva in un momento in cui i sardi non stavano più facendo niente di niente e l'Inter stava gestendo esattamente come fatto nel doppio vantaggio. 

Il lampo di Pavoletti resta lampo che non scatena temporali e l'Inter, pensate un po', incassa il jackpot anche a Cagliari specchiandosi nelle sue piacevoli conferme di fine partita (Candreva indispensabile, Borja Valero centrale, Miranda sulla via del ritrovamento, Perisic incisivo ed Icardi diamante sempre più lucido) e nei suoi ripetitivi difetti dell'inizio (transizione inguardabile, distanze approssimative, centrocampo mai su di tono prima di una certa fase di partita).

Paradossalmente quella di domenica contro il Chievo diventa la sfida più difficile tra le ultime affrontate, non foss'altro perché manca l'elemento abitudinario più importante: la formazione, che per la prima volta in quasi due mesi non può essere confermata per almeno 10/11.
Toccherà sicuramente a Ranocchia, l'unico che ancora non ha avuto l'occasione di dare segnali di ripresa tra coloro che erano definiti, a ragion veduta, impresentabili in estate (parlo ovviamente di Nagatomo e Santon) e che invece hanno dato finora un contributo sicuramente sufficiente per prendere parte alla causa.
Toccherà molto probabilmente a Brozovic che definirei come avevo definito Stephane Dalmat tempo fa: un lancio di moneta incarnatosi in un calciatore. Può essere sole di luglio o eclissi lunare senza soluzione di continuità, se qualcuno sa prevederlo mi spieghi come fa.

Quella che spero di poter commentare lunedì prossimo potrebbe diventare la vittoria di Spalletti contro i demoni di una rosa cortissima e l'inaffidabilità di un parco riserve che fino ad oggi ha destato più di un dubbio sul proprio valore.
Ma anche loro, le riserve, con tutti i loro difetti sono parte di questa Inter.

Questa Inter, che vince con la forza dell'abitudine.
Questa Inter, che adesso forse non è più pazza ma sicuramente fa impazzire: di gioia chi la ama, di rabbia chi la odia.


lunedì 20 novembre 2017

Non è più un caso



Oggi vi stupirò con un gioco di prestigio: leggerò il vostro pensiero, non quello attuale ma quello retrodatato.
Entrerò nella vostra mente per come è stata in due momenti ben precisi: l'immediato pre Inter-Atalanta e l'intervallo della partita.
Verso le 19.30 di domenica sera, stavate pensando pressappoco questo: la Lazio ha perso, la Juventus ha perso, il Milan ha perso e noi dobbiamo ancora giocare. Siamo reduci da un pareggio in cui abbiamo ripreso la partita per il ciuffo, c'è stata una sosta mai troppo benevola con noi in mezzo, abbiamo l'occasione di approfittare dei passi falsi delle altre.
La vostra impeccabile analisi devia sulla conclusione tipica dell'interista davanti a questo genere di coincidenze astrali: è il momento dello sveglione, quello che ci riporterà a terra, che mostrerà agli inguaribili ottimisti la fragilità mentale insita nel DNA di questa squadra. Spiace dirlo ma noi siamo così, ci siamo trascinati per inerzia e adesso il credito è esaurito.
Ci ho preso? Allora vado ancora più in là e decodifico il vostro pensiero nell'intervallo di Inter-Atalanta: lo sapevo, è la solita partita del cazzo(testuale) in cui ci accartocciamo alla distanza, ci incaponiamo, ci deprimiamo, ci disuniamo e alla fine vedrai che prenderemo anche il gol della domenica da un Gomez o da un Ilicic e sarà tutta una curva discendente fino al crollo completo.
Giusto? Diciamo che sono abbastanza convinto che 8 interisti su 10 l'hanno pensata così.


Invece ad accartocciarsi è stata l'Atalanta, perchè banalmente in questo pensiero condizionato emotivamente dagli eventi passati, ci siamo dimenticati una cosa fondamentale: l'Inter non perde da 13 partite, che diventano 19 se consideriamo un precampionato che aveva già fatto vedere tutte le idee di una squadra che stava iniziando ad essere una squadra. Ammesso che lo sia mai stato, non è più un un caso.
Che l'Inter abbia svoltato dal punto di vista della mentalità lo abbiamo capito in molti, chi prima e chi poi: siamo adesso noi ad essere quelli oggettivi,razionali e con in tasca il conforto dei fatti.
Se ne stanno accorgendo anche gli avversari, anche l'Atalanta che è una delle squadre più collaudate del campionato si è presentata qua senza una prima punta di ruolo e con un centrocampo piuttosto corazzato: meno propositiva del solito, a lasciar intendere che sono finiti i tempi in cui una buona organizzazione di gioco unita ad un paio di elementi di buona qualità bastavano per pensare di banchettare a San Siro.
Quello che avete pensato all'intervallo, secondo il mio pronostico, vi ha dato la convinzione che l'Inter stesse giocando male e questo a tratti è vero, ma non spiega tutto: perché, come avevo già scritto due settimane fa, in questo avvio di campionato da cifre record ci siamo dimenticati che gli avversari non sono scomparsi e l'Atalanta del primo tempo di San Siro ne è la prova. 

Ci hanno incartato con la densità, gli uno contro uno, il ritmo molto alto. Questo è un altro elemento di rottura col passato: l'Atalanta ha corso tanto, tantissimo e per tenere il risultato al giro di boa della partita ha dovuto spingere a tavoletta il pedale dello sforzo collettivo ben oltre il livello medio con cui molte contendenti hanno fatto bottino pieno a San Siro in altri tempi.
Poteva perfino non bastare, perchè l'Inter era arrivata in porta con tre passaggi anche nel primo tempo, ma Icardi è stato benevolo con la Dea nel duello a tu per tu con Berisha.


Data la situazione all'intervallo, nel secondo tempo servivano due elementi all'Inter: la crescita dell'impianto di gioco soprattutto a centrocampo ed il calo fisiologico dell'Atalanta.
Ma all'ingresso del secondo tempo succede una cosa che è il Turning Point, il punto di svolta dell'Inter 17-18: i giocatori iniziano a rifiutare lo stallo della partita ed iniziano a prendere di petto la situazione mettendo in campo lo sforzo supplementare per portarsi a casa la partita facendo valere la maggiore qualità. A questo si uniscono anche degli aggiustamenti tattici riusciti, come l'arretramento di Borja Valero e l'intensità nell'andare a fermare sul nascere ogni transizione della squadra di Gasperini. Considerando che l'azione orobica parte sempre dalla fascia è così che D'Ambrosio si apparecchia un secondo tempo magistrale, è da qui che l'Inter fulmina l'Atalanta in dieci minuti.
A questo punto potremmo stare qua a dirci che, stringi stringi, la differenza la fa Icardi da solo, il che potrebbe risultare vero sulla superficie ma non in senso assoluto.
Riguardando meglio il primo gol, realizziamo che se Icardi può andare a colpire sostanzialmente indisturbato è soprattutto perché Skriniar (sì, sa fare anche questo) riesce a fare un doppio blocco: sul suo marcatore prima ma anche e soprattutto su Cristante che, accortosi saggiamente che Toloi avrebbe potuto mancare l'intervento, stava per tentare la chiusura in extremis prima di schiantarsi su un Tir con la targa slovacca.
Riguardando meglio il secondo gol, prendendo atto di un movimento stratosferico del Capitano goleador che nemmeno stupisce coloro che gli stanno riconoscendo la miglior stagione della carriera, realizziamo che l'azione la guadagna D'Ambrosio con un anticipo secco e potente, la sviluppa anche Candreva che porta via il raddoppio al compagno lasciandolo libero di andare al cross prendendo la mira per la finalizzazione magistrale di Icardi.
Questo è il turning point dell'Inter: gli eventi non si subiscono, gli eventi si dominano. Il mantra usato come un coltellino svizzero da Spalletti fin dal primo giorno all'Inter ed ora anche visibile nelle dinamiche di campo. 

L'Inter che non perde non è più un caso: se l'Inter non perde è soprattutto perché gli eventi li ha sempre dominati salvo un paio di casi in cui effettivamente la fortuna ha sorriso ed aiutato a trovare la strada giusta, tanto quanto ha tolto la possibilità di tagliare il traguardo in altre occasioni.
E pazienza se la proposta di gioco non è ancora perfettamente riconoscibile: tocca nuovamente ricordare che l'Inter è una squadra nuova, cosa che ci diciamo tutti gli anni, ma che risulta sempre vera. Tocca ricordare che è l'unica squadra nella Top 5 ad aver ricostruito la propria spina dorsale e non è una cosa da poco: l'unica altra big ad averlo fatto naviga ad un punteggio più vicino alla retrocessione che alla Champions League.
Per stare all'Inter ora serve uno standard molto alto: emblematico è in questo caso Dalbert, che ha visto passargli davanti i rivitalizzati Nagatomo e Santon, non perchè sia per forza stato bocciato ma semplicemente perchè così non basta. Non quest'anno, non per Spalletti.

Qua gli esami non finiscono mai ed è pacifico: fino a quando non ci sarà una posizione consolidata in primavera ogni settimana sarà la prova di maturità, la conferma da trovare, il tabù da sfatare, il passato da cancellare.

Però non è più la squadra che si adegua agli altri, non è più la squadra che annaspa in mezzo ad equivoci tattici, non è più la squadra che perde la trebisonda al primo ostacolo che trova, non è più la squadra che cavalca gli eventi facendosi poi puntualmente disarcionare.
No, signori: questa Inter non è più un caso.

lunedì 13 novembre 2017

Siamo questi



24 giugno 2010.
24 giugno 2014.
13 novembre 2017.
Tre date che si stagliano nell'arco di sette lunghi anni, tre date che apparentemente non hanno nulla in comune ma a ben vedere posseggono un enorme comune denominatore: sono le tre date in cui la nazionale italiana di calcio si è trovata sull'orlo del precipizio e si è improvvisamente ricordata di tutto ciò che non funziona.

L'Italia delle quattro stelle sul petto che non è più in grado di trovare il suo posto sulla mappa planetaria, l'Italia calcistica che ha scoperto di potersi deteriorare e di non avere alcun diritto divino da esercitare, l'Italia con addosso gli occhi del mondo che si interroga su cosa continui ad andare storto nel rapporto con la massima competizione globale dopo la gloria del 9 luglio 2006.
Quelle che seguono sono riflessioni di un osservatore che non ha alcuna velleità né pretesa, ma che si interroga su quella sensazione di loop che ha addosso da quasi un decennio e che anche ingenuamente si stupisce su come la ripetitività di certe situazioni pare faccia cadere dalle nuvole un'ingente quantità di persone che vivono, o dovrebbero vivere di pallone ogni giorno.

MEZZE FIGURE E FIGURACCE
Per rendere efficace qualunque analisi vogliamo fare, dobbiamo necessariamente partire dall'ultimo fotogramma: lo stato confusionale in cui versa Giampiero Ventura e il modo in cui è diventato il bersaglio mobile di un'intera nazione in poche settimane.
Non sono stati in pochi ad alludere o a dire apertamente che la priorità della nazionale è cambiare il Commissario Tecnico anche in caso di qualificazione al mondiale acciuffata: qui si apre un vaso di Pandora delle dimensioni del Colosseo, perché dobbiamo riflettere in primis sul motivo per il quale Ventura sia stato scelto, visto che all'epoca lo avevano capito in pochi e oggi ancora meno persone lo comprendono, forti del senno di poi.
Quando l'attuale CT ha preso in mano la nazionale si era ventilata l'ipotesi che la strada verso il mondiale fosse stata spianata dall'eredità che aveva lasciato Conte, ma la maggior parte si era accorta benissimo che era lo stesso Conte il vero valore aggiunto. La scelta di Ventura non era sembrata quindi molto diversa da quella di Prandelli, che per quanto sia riuscito in un grande exploit nel 2012, ha evidenziato nel 2014 la stessa confusione che c'è in Ventura oggi, con formazioni sbagliate e l'impressione di essere stato delegittimato dal gruppo e di poter finire in preda dell'opinione pubblica.

Prandelli e Ventura rappresentano le mezze figure che nell'occasione forse unica della vita fanno quello che possono fare senza alzare troppo la voce.
Tutt'altra musica rispetto a Conte che già nella prima conferenza da CT aveva iniziato ad evidenziare l'esigenza impellente di riforme strutturali nel movimento calcistico nazionale per poi andarsene in polemica due anni dopo dicendo con amarezza che su certe cose aveva fatto la guerra da solo.
La questione sembra piuttosto semplice e logica: se in panchina ci si mette un tecnico vincente è necessario creargli una struttura vincente altrimenti suddetto allenatore alza i tacchi e toglie il disturbo.
La scelta di allenatori che sembrano inadeguati per il ruolo fin dall'inizio potrebbe allora celare la precisa volontà da parte della Federazione di inserire mezze figure che non hanno il carisma ed il background professionale per imporre determinate migliorie che nessuno vuole davvero effettuare e che saranno ben contenti di lavorare con il discreto materiale che si ritroveranno; allo stesso tempo possono diventare facili capri espiatori su cui deviare l'ovvio e grave problema strutturale che esiste in tutti i livelli del nostro calcio.
Con la sola controindicazione che in una nazionale come quella italiana le mezze figure portano quasi sempre alle figuracce ed alla ripetitività dei dibattiti che poi restano sempre estemporanei e fini a loro stessi.

GERONTOCRAZIA

La precedente riflessione potrebbe essere collegata ad un altro punto da evidenziare: l'Italia è una nazionale gerontocratica, senza girarci troppo attorno.
Analizzando l'11 sceso in campo a Solna venerdì sera ci accorgiamo che 6/11 erano in campo nell'esordio del disastroso mondiale 2014, 4/11 furono titolari nell'esordio di Euro2012, 3/11 furono scelti da Lippi per la prima partita del fallimentare mondiale sudafricano ed addirittura 2/11 partirono dall'inizio ad Hannover nella prima partita del trionfale mondiale 2006 (con il terzo, Barzagli, che faceva parte della spedizione).
Non si tratta solo di mancanza conclamata di ricambi, ma anche di aver eletto dei senatori a vita: una scelta che non permette di responsabilizzare giocatori al di fuori di questa cerchia, che vengono trattati come stagisti nel momento in cui sono in piena maturità calcistica.
Emblematico l'esempio di Verratti: ancora a fine 2015 ci si chiedeva se era il caso di responsabilizzare un giocatore di 23 anni, che era titolare in una delle squadre più attrezzate d'Europa da quasi un biennio.
L'Italia che ha giocato in Svezia con 6 giocatori nati negli anni '80 è la radice del problema: oltre alla freschezza atletica che inevitabilmente viene a mancare, resta l'impressione di un gruppo in apparente autogestione che non ha più la fame e le motivazioni dei propri anni migliori.
Delle due l'una: o Ventura si affida a loro per avere un paravento di esperienza in caso le cose andassero male o ha le mani legate in questo senso.
Comunque la vogliate mettere, guardiamo altrove e ci accorgiamo che le stelle già consacrate o in procinto di esserlo nelle altre nazionali creano un solco di età che inizia ad essere imbarazzante: Gabriel Jesus (Brasile 1997), Asensio (Spagna 1996), Alli (Inghilterra 1996), Mbappe (Francia 1998), Werner (Germania 1996) sono già annoverati tra i migliori giocatori del mondo e con un'età media di 20,4 anni oggi si potrebbero teoricamente trovare ad affrontare una difesa azzurra la cui media anni è di 34,5.
Non credo si possa provocare più alcuno scandalo se si afferma con convinzione che tale situazione non è più accettabile.


BAN DEGLI STRANIERI: LA TOPPA PEGGIO DEL BUCO
In mezzo alle voci di protesta urbi et orbi, torna sempre il solito refrain dei troppi stranieri e dello stop che andrebbe imposto immediatamente sulla scia di quanto fatto nel 1966.
Senza dover stare a dire perchè il calcio del 2017 non ha nulla a che fare con quello del 1966, nel dare il proprio beneplacito a tale provvedimento non si fa altro che strizzare l'occhio ad una federazione che da anni naviga consapevolmente sulla superficie dei problemi senza mai azzardarsi nemmeno a quantificare tutta la spazzatura che ne popola il fondale.
Porre il divieto agli stranieri oggi sarebbe il colpo di grazia inferto ad una Serie A già agonizzante, che dovrebbe diventare autarchica proprio nel momento in cui si è trovata costretta ad attirare visibilità e capitali stranieri per tentare di non finire in coma vegetativo irreversibile causato dall'incapacità di tenere il passo con i tempi da parte della classe dirigente che del calcio italiano muove i fili.
Eppure questa litanìa che continua a ripetersi ogni qualvolta la Nazionale compie un lungo passo nel vuoto non trova un coerente riscontro nel momento in cui il maggior interesse nazionalpopolare è il campionato: dovremmo tutti ricordarci come fino a due-tre anni fa uno dei problemi sollevati fosse lo scarso appeal che non attirava i campioni dall'estero.
Perché banalmente la verità è questa: i giocatori forti in questo momento albergano oltre confine e lo hanno ben capito le prime cinque del nostro campionato che settimanalmente mandano in campo un 11 che non va mai sotto il 70% di giocatori stranieri, senza che nessuno si affanni a dire che in ottica Nazionale la situazione risulti inquietante tanto quanto lo risulti quando la Nazionale si sta per inabissare.
Dobbiamo metterci d'accordo: o celebriamo come orgoglio nazionale la formazione tipo della Juventus pre-Cardiff (4 italiani di cui 3 over 30) e in tempi più recenti del Napoli di Sarri (2 italiani di cui un oriundo) o puntiamo poi il dito contro le realtà troppo esterofile e nemiche della crescita del movimento nazionale: ambo le cose, come evidente, non si possono fare.
Anche a livello giovanile, la situazione è catastrofica praticamente da tutti i punti di vista: il fatto che i campionati Primavera, ma anche le categorie inferiori, siano invase da giocatori stranieri è visibilmente legata al fatto che gli stranieri costano molto meno e permettono di mettere a segno plusvalenze di gran lunga superiori che nella maggior parte dei casi fanno la differenza sulla boccheggiante situazione economica di moltissimi club italiani.
Inutile parlare di esterofilìa e fascino dell'esotico, questa non è una libera scelta: sarebbe come vietare alle imprese italiane di portare all'estero interi reparti o direttamente la sede amministrativa per favorire il made in Italy a scapito del loro guadagno. La tendenza è radicata, nelle imprese come nel calcio, semplicemente perché non esiste una struttura sostenibile alla base e la sopravvivenza passa anche da questo tipo di decisioni.
Sempre parlando di Campionati Primavera, evidenziamo una volta di più che tra il livello giovanile e il livello professionistico c'è di mezzo un mare profondo quanto l'Oceano Indiano: il salto nella maggior parte dei casi fallisce perché chi esce dal settore giovanile non è assolutamente pronto per uno sport completamente diverso come il calcio professionistico.
Non è più un mistero il ritardo che l'Italia ha accumulato nel settore giovanile rispetto ad altri paesi: si può anche qua superficialmente dire che è una generazione sfortunata, che i Maldini, i Totti, i Nesta non nascono più ma la verità è che non crescono come se fossero in altri paesi: spesso viene citato l'esempio della Germania, che nel 2000 decide di fare tabula rasa (peraltro avevano vinto l'Europeo solo 4 anni prima) ed istituire una rete di centri federali che viaggiano sulla stessa lunghezza d'onda, con gli stessi standard qualitativi e con gli stessi fondamenti pena pesanti sanzioni ai club che non si adeguano,  ma anche la Francia ha un programma federale molto simile per struttura e qualità che permette poi di disporre di almeno una quarantina di giocatori sotto i 25 anni che si possono esprimere ad alto livello.

Senza avventurarci nell'inferno delle categorie inferiori alla Serie A, dove tra le altre cose spicca la realtà in cui ci sono giocatori che pagano di tasca propria per poter giocare, se consideriamo solo il fatto che dopo il pesante fallimento mondiale del 2014 abbiamo preferito le multiproprietà (che si possono permettere forse in due o in tre) rispetto all'istituzione delle seconde squadre, la conclusione che ne traggo è banale quanto trita: l'Italia non mostra alcun interesse a crescere collettivamente, ma è sempre rivolta al guadagno individuale.

Queste riflessioni possono essere condivisibili o no, ma non è questo il punto che voglio far emergere: il punto è che avrei potuto giungere ad identiche conclusioni quasi dieci anni fa.
Perché comunque la vogliate girare, comunque vada Italia-Svezia di questa sera, comunque vada poi a finire l'eventuale avventura mondiale, non ci diciamo e non ci diremo nulla di nuovo: noi eravamo, siamo e rimaniamo questi.
Avvitati su vizi di cui tutti sono consapevoli ma che nessuno è disposto a perdere, cristallizzati su disastri strutturali di cui amiamo dimenticarci preferendo vivere alla giornata quando la Nazionale non è in auge, basati su un sistema insostenibile che ripete gli stessi errori per poter pagare gli stessi dividendi agli stessi soggetti.
Siamo questi e questi rimaniamo.






lunedì 6 novembre 2017

La classifica non è un'opinione



30 punti su 36.
12 turni di imbattibilità.
11 punti su 15 conseguiti contro le prime otto in classifica.
2 punti di distacco dalla vetta.
11 punti di distacco dati ai rivali cittadini.
Oggi mi è stato detto che negli ultimi anni siamo diventati commercialisti, che i numeri ci stanno influenzando troppo; io dico invece che abbiamo perso di vista l'inoppugnabile, cioè la matematica, a favore dell'inconsistenza insita nella post-verità. E in questo caso la sola verità che conta, cioè il numero di punti in classifica, passa in secondo piano a favore di opinioni, proiezioni, picchi emotivi, ansia da prestazione, ansia da pressione, paranoia, traumi del passato e terrore del futuro.
Scendiamo un attimo dalla giostra e organizziamo un'analisi razionale: ne ho bisogno io e forse ne avete bisogno anche voi.

IL PASSO CHAMPIONS NON È IL PASSO SCUDETTO
C'è un grande equivoco in questa Serie A: proiettare la classifica finale secondo le medie attuali. Oltre ad essere un equivoco è un grave errore, come proiettare l'ordine di arrivo e relativi tempi dei 10mila metri piani quando la distanza coperta non è neanche a due chilometri. Credere che tutto proceda secondo un trend prestabilito senza alcuna variabile o variazione.
Un errore che in ambito comportamentale è conosciuto come "fallacia della mano calda" e che è uno dei tranelli cognitivi più comuni, soprattutto dove l'ambito è la competizione.
Non è ragionevole credere che quattro squadre vinceranno sempre, in primis perché i campionati vivono di fasi nelle quali nessuna squadra è mai stata continua dall'inizio alla fine: nemmeno l'Inter dei 97 punti 2006/07, che a questo punto del campionato aveva lo stesso punteggio dell'Inter attuale. Nemmeno la Juventus dei 102 punti, che a questo punto del campionato aveva già perso una volta.
Ragionevole è dire che ogni stagione è a sè e può spostare nuove frontiere o abbattere limiti pre-esistenti, però deve valere per tutti: anche per l'Inter che quindi non ha la certezza di fallire l'obiettivo, come qualcuno sta insinuando, solo perchè esiste un precedente del 2015-16 in cui all'ottimo avvio (risultante comunque in tre punti meno dell'attuale) è seguito un crollo primaverile.
Non lotterà per lo Scudetto l'Inter, non lotterà per lo Scudetto la Lazio e molto probabilmente nemmeno la Roma: proprio perchè le soglie di punteggio sono le più alte di sempre, alla lunga saluteranno la compagnia le squadre più attrezzate per il bersaglio grosso e nel contempo abbastanza navigate da poter sublimare la loro crescita. Tra queste, io ne riconosco sempre e solo due con le altre a galleggiare su un livello di poco più basso.


ESISTONO ANCHE GLI AVVERSARI
Un altro grosso equivoco nel giudizio di questo campionato è credere che ogni partita sotto la quinta in classifica sia da considerare alla stregua di un allenamento: i due punti persi con il Torino sembrano oggi una fatalità irrimediabile e non si capisce perchè i due punti persi dalla Lazio con la Spal siano da ascrivere agli innocui incidenti di percorso delle prime giornate, come se la classifica della Serie A non le annoverasse.
Fa parte della post verità dire, dopo il pareggio con il Torino, che Roma e Lazio hanno un passo diverso e superiore: dire che certe partite loro non le sbagliano, con certe squadre loro passeggiano.
La Lazio ad esempio ha portato a casa il risultato di misura e negli ultimi minuti sui campi del Chievo e del Genoa, si è fermata come detto contro la Spal e ha rischiato di farsi riprendere a Bologna; la Roma è andata certamente meglio, ma non ha dominato in lungo e in largo contro Crotone e Bologna, oltre ad aver già inanellato due sconfitte nei cosiddetti scontri diretti.
C'è inoltre una differenza da rimarcare sul calendario ancora incompleto, allorché la Lazio ha sfidato in 8 occasioni su 11 squadre che navigano attualmente tra l'11° e il 20° posto a differenza dell'Inter che ha avuto tale privilegio due volte in meno fin qua.
Va chiarito, non è una discriminante vincere soffrendo: è semplicemente uno degli step fondamentali di un campionato nonché uno degli indicatori più consistenti di una squadra presente e determinata anche quando la superiorità sulla carta sembra più assottigliata in campo. Proprio questo è l'elemento che dovrebbe far dire ai tifosi dell'Inter che la loro squadra c'è.
Un discorso che vale anche per Napoli (due vittorie in rimonta con Genoa e Sassuolo) e Juventus (in rimonta con Genoa e Benevento).
Gli avversari esistono per tutte ed in particolare il Torino visto a San Siro ha portato via un punto più per meriti suoi che per demeriti nerazzurri: è evidente che la squadra superiore che è l'Inter abbia primeggiato nel computo delle occasioni avute, ma va considerato che la maggior parte di esse siano arrivate negli ultimi dieci minuti, in cui il Toro ha deciso che l'1-1 poteva andare bene ed ha arretrato il proprio baricentro di una ventina di metri per la prima volta in tutta la partita.
La squadra di Mihajlovic è stata ampiamente all'altezza dell'impegno e ha accarezzato anche l'idea di fare il colpo grosso dopo essersi trovata in vantaggio: non sarà l'unica volta che accadrà in questo campionato, nè all'Inter né alle sue competitors.


L'INSERIMENTO DEI NUOVI
A proposito dell'Inter, l'appetito arrivato mangiando punti e battendo record storici pur parziali ha completamente lasciato cadere nel vuoto un tema fondamentale dell'inizio di stagione: la squadra di Spalletti è quella che ha meglio saputo inserire i suoi nuovi arrivi all'interno del proprio rinnovato sistema di gioco.
Tendiamo a dimenticarlo per la buona abitudine dei tempi recenti, ma tra le prime cinque in classifica l'Inter è sicuramente la squadra più in rodaggio che c'è: nuovo allenatore e con lui nuova filosofia, con due terzi della spina dorsale composta da neo acquisti (Skriniar e Vecino) che hanno saputo giocare duro fin da subito, ma che hanno ancora consistenti margini di crescita nei loro servigi per la squadra che hanno attorno.
Guardandoci altrove, abbiamo Juventus e Napoli con progetti avviati da almeno tre anni; la Lazio aveva già trovato la sua alchimia nel girone di ritorno dello scorso anno e la sta mantenendo a seguito di qualche ritocco dovuto ad inevitabili cessioni (Biglia). 
Anche la Roma ha cambiato tecnico e variato sistema di gioco, ma ha mantenuto la stessa spina dorsale che le consegnò il secondo posto un anno fa: Fazio/Manolas, Nainggolan/Strootman e Dzeko. Il merito è quello di aver saputo ovviare alle perdite in rosa con elementi che sembrano un deciso upgrade, come Alisson e Kolarov, che si sono tuttavia inseriti in un sistema che era già funzionante senza che lo abbiano di fatto creato come successo all'Inter.


LA ROSA CORTA
La sola cosa che all'Inter dà un giustificato motivo far storcere il naso è il numero di abili ed arruolati per la stagione in corso: Spalletti ha di fatto 14 titolari e nessuna riserva, guardando il momento attuale. Non ha le armi per poter stravolgere una partita bloccata, poco contributo da giocatori ancora troppo acerbi o semplicemente poco affidabili, ha potuto trovare la quadra non toccando quasi nulla rispetto a ciò che aveva in mente durante l'estate.
Giriamo lo sguardo e vediamo che il Napoli non ha un imprinting così tanto diverso: lì i titolari sono più o meno 15, ma la grossa differenza è che se Sarri si trova in emergenza può provvedere numericamente, se capitasse in questo momento a Spalletti toccherebbe citofonare a casa Vecchi per tirar su qualche sbarbatello e poter compilare la distinta.
Questa è l'unica ombra davvero concreta su una stagione positiva e l'unico vero motivo di preoccupazione per il futuro: già solo un cartellino giallo a carico di Miranda ad oggi vorrebbe dire Ranocchia titolare e nessun cambio di ruolo dietro, con la possibilità di arruolare D'Ambrosio per tale posizione spostando però il buco dal centro alle fasce, là dove al posto del 33 nerazzurro potrebbero giocare solo Cancelo (definito non pronto), Santon (poco affidabile per evidenza) o al limite Nagatomo che a sua volta crea la contingenza nel posto che lascia (Dalbert è un altro definito acerbo).
Questo è un problema che non impatta ad oggi le competitors e che potrebbe potenzialmente tracciare un solco: tra l'Inter A e l'Inter B al momento passa almeno mezza categoria di differenza, senza considerare che l'Inter B copre forse la metà dei corrispettivi ruoli.
Un problema che attende una soluzione urgente nella prossima finestra di mercato, dove almeno un paio di innesti nei ruoli sensibili a livello numerico sono una necessità.

Ora che sono sceso dall'ottovolante mi gira meno la testa, il mio stomaco brucia meno e generalmente mi sento meglio.
Sapere che non esiste la classifica delle opinioni discordanti, la classifica del bel gioco, la classifica dei pali colpiti, la classifica dei pali degli altri, la classifica delle impressioni, la classifica delle vacuità mi rimette finalmente in contatto con la realtà.
30 punti su 36.
12 turni di imbattibilità.
11 punti su 15 conseguiti contro le prime otto in classifica.
2 punti di distacco dalla vetta.
11 punti di distacco dati ai rivali cittadini.
E una classifica che non è un'opinione.

mercoledì 25 ottobre 2017

Destini forti



Aspettavamo tutti al varco di ottobre, tutti: curiosi, scettici, ottimisti, pessimisti, gufi e innamorati. Aspettavamo là appostati, chi pronto a fare il cordone d'onore, chi roteando la mazza chiodata che aveva armato in estate.
Bene, la parte più calda di ottobre l'abbiamo passata ed è tempo di primi responsi: l'Inter è cresciuta quando era più importante farlo. Se con Crotone, Genoa e Benevento è bastato il minimo sindacale della maggiore quota tecnica, negli ultimi dieci giorni si doveva iniziare ad entrare in gioco da duri. Non bastassero i sette punti su nove nel primo trappolone offerto dal calendario, l'Inter ha interpretato i tre esami ravvicinati in maniera variegata ed efficace: nel derby ha vinto di cuore, andando oltre i limiti palesati dall'aver concesso per due volte il pareggio al Milan; a Napoli ha pareggiato con il carattere e da squadra (anzi, diciamola bene: ha giocato con i coglioni ben esposti); contro la Sampdoria ieri sera l'Inter aveva deciso di esagerare, stravincendo e dando spettacolo, ma non si è fatta benissimo i conti sulla gestione delle energie ed è uscita dalla partita in anticipo. La prestazione dei primi 65 minuti rimane ed è la migliore, in termini di proposta di squadra, degli ultimi 4-5 anni (in coabitazione con il purtroppo inutile 3-0 rifilato alla Juventus in Coppa Italia nel marzo 2016).

Il crescendo rossiniano messo in scena in questo scorcio di autunno non è casuale, non è estemporaneo e non è umorale: è semplicemente quella rivoluzionaria idea che qualcuno di noi enunciava nel precampionato, mentre altri si dilaniavano con le marchette di un mercato che non portava i pacchetti di figurine da scartare ed incollare in una rosa che doveva diventare un album da collezione.
L'idea del cambio di filosofia: piedi buoni, calcio propositivo ed atteggiamento sistemico. 
La quantità di pomodori che sono stati tirati a chi parlava di un mercato logico, in cui l'allenatore tornava filo conduttore dopo aver speso a casaccio un anno prima, oggi potrebbe sfamare buona parte del terzo mondo.
Eppure non era affatto impronosticabile, andando oltre la logica dell'individuo per molto tempo unica guida dell'estate interista: gli acquisti fatti avevano in comune la caratteristica di arrivare da sistemi di gioco dinamici e propositivi, soprattutto Vecino era riuscito ad emergere nel declamato Empoli di Sarri e nella prima Fiorentina di Sousa che spaventò il campionato prima di avvitarsi sui suoi limiti tecnici.
Ovvio, prima di vedere concretizzata almeno l'idea che girava nella testa del tecnico lo scetticismo c'era in tutti: "l'Inter non ha nel DNA il gioco propositivo, lo sacrifica per la solidità". Regole scritte apposta per essere sovvertite.
Prendere a campione il terzo gol segnato alla Sampdoria: sviluppo in tutta la verticalità del campo, 7 giocatori coinvolti, 11 passaggi e mai un tocco avversario nel mezzo. Uno sviluppo provato anche nel precampionato snobbato dai più, la prova tangibile che almeno nelle intenzioni di allora il vento cambiato stava spirando come una brezza piacevole, senza minacciare tempesta.

Lui è l'artefice di questo avvio eccellente nei risultati e sempre più convincente nelle dinamiche di gioco: Luciano Spalletti è un altro arrivato defilato, all'ombra degli affascinanti e roboanti nomi spesi per la panchina. Uno che di credito ne ha avuto poco, talmente poco che ancora a fine agosto gran parte della tifoseria social riteneva immutato il gap dalla Roma collezionato nel 2016/17, nonostante lo spostamento del tecnico.
Con grande intelligenza, Spalletti ha capito subito il primo grande problema del pianeta Inter: aver collezionato troppe mezze figure tra gli allenatori passati nell'ultimo lustro, con la lacuna di un leader che sapesse coniugare il carisma e la tattica, la comunicazione e l'atteggiamento, la responsabilità e l'appartenenza.
Si è liberato dei giocatori di piede ineducato e si è preso la responsabilità di mettere la firma sull'acquisto di Borja Valero spendendosi personalmente in un "vi farà divertire". 
Ha parlato di interismo e di derivate responsabilità fin dalla sua presentazione, ha messo sotto torchio il gruppo che fallì la scorsa stagione pretendendo risposte concrete e immediate. 
Ha approcciato bene un immediato avvio di campionato che al sorteggio dei calendari scatenò previsioni apocalittiche, non si è fatto problemi a mettere la solidità davanti alla fluidità di gioco quando le gambe giravano poco.
Ha tenuto il profilo basso e concentrato nella lunga attesa del derby mentre dall'altra parte si proclamava, si declamava, si esclamava, si rumoreggiava: il jackpot se lo è portato a casa lui assieme a tutti coloro che ne hanno goduto.
Ha considerato il derby, pur non giocato alla perfezione, come un punto di partenza ed è andato a Napoli a giocarsela palla a terra con personalità, collettivo e cazzimma: come a dire, il Napoli sarà la squadra più bella d'Europa, ma noi siamo l'Inter e andiamo a farci rispettare anche da loro. Giocando corto, con la squadra raccolta in non più di 20-25 metri quando il possesso ce l'avevano i partenopei (quindi, per anatomia, molto spesso) a circondare l'avversario muovendosi all'unisono come fosse una coreografia scenica. Coinvolgendo tutti. 
Stesso atteggiamento replicato con la Sampdoria, con la differenza di dover unire anche una fase offensiva coinvolgente ed efficace. Con la fame, la stessa fame di 54mila e passa anime popolanti San Siro in infrasettimanale, di chi ha mangiato pane duro e cipolla per troppo tempo ed assalta un buffet imbandito di leccornie.

Coinvolgente la manovra, coinvolti i giocatori. 
Coinvolto D'Ambrosio, che non ha mezzi tecnici scintillanti ma l'attitudine di un marine; stesso dicasi per Nagatomo dall'altra parte, con il plus di saper fare cose belle e utili quando si trova in fiducia. 
Coinvolto Candreva, arresosi al serbatoio vuoto non prima di aver giocato due partite e mezza di altissimo livello.
Coinvolto Perisic, nell'assediare il Doria per un'ora e nel passare a difendere l'assedio improvviso degli ospiti negli ultimi 30 minuti. Lì a fare il terzino chiudendo dove e quando serviva davvero e stiamo parlando dello stesso uomo che poco più di tre mesi fa si allontanava dalle foto di gruppo e guardava dall'altra parte, da lupo solitario.
Coinvolto Icardi, che segna un gol bellissimo e chiude un'azione meravigliosa per poi andare ai microfoni del post partita a dire che così non va, che non si può rischiare la buccia dopo essersi vestiti da jaggernauts per un'ora abbondante, che ci sono cose che vanno evitate sia da parte sua che da parte della squadra. Lì a fare il cazziatone ai compagni dopo aver giocato per più di metà partita un calcio vincente e convincente, prima che arrivi Spalletti a rompere le righe ricordando a tutti che, va bene l'autocritica, ma i tre punti sono ancora in saccoccia. E stiamo parlando, nel caso del 9 nerazzurro, dello stesso uomo a cui tre mesi fa sarebbe stata tolta la fascia da capitano per plebiscito. 

Si fa presto a dire Scudetto ma no, è una trappola messa a nudo dagli ultimi venti minuti di Inter-Sampdoria: se da un lato Spalletti ha trovato la quadra dell'undici, per tre volte schierato uguale e per tre volte convincente, dall'altro lato c'è una panchina che ad oggi non ha nemmeno una forma ed un volume.
Riavvolgendo il nastro dei vari subentrati, pare che il solo Eder abbia capito quale tipologia di atteggiamento va tenuto in questo gruppo. Non l'ha capito sicuramente Joao Mario, ieri vaso di coccio in mezzo a piloni di cemento armato: c'è chi dopo oltre un anno non ha ancora capito che ruolo ha il portoghese e che peculiarità tecniche abbia ed è francamente difficile biasimare chi ha queste posizioni.
Discorso diverso per Brozovic, la cui indiscutibile tecnica al servizio del gruppo diventerebbe arma lussuosa e scintillante, ma che non sappiamo ancora se sarà in grado di mediare con una capoccia selvaggia e distorta come un segnale radio che salta all'improvviso.
Il resto è una rassegna di tirocinanti (Dalbert e Cancelo), liceali sopra la media (Karamoh) e scarti di lavorazione degli ultimi tragici anni (Ranocchia e Santon).

Non solo la coperta corta, c'è anche la maturità della grande squadra ancora da completare.
Philippe Petit, l'equilibrista che nel 1974 camminò per quasi un'ora su un cavo d'acciaio sospeso tra le defunte Twin Towers a oltre 400 metri d'altezza, diceva che nel suo mestiere c'erano tre passi decisivi: gli ultimi. I tre passi tra il vuoto e la meta, i tre passi che ti tradiscono se pensi di avercela fatta prima di compierli. 
Lo Scudetto è esattamente come la traversata delle Twin Towers: ci vuole concentrazione, gestione dell'equilibrio, forza, consapevolezza, dominio degli elementi e degli spazi. Non bastano nemmeno tutti i passi fatti bene, se mancano gli ultimi tre si cade e non c'è ritorno.
L'Inter no, questi passi non li può ancora fare ma non ha l'ossessione di doverli fare: anche forzare un equilibrio così sottile prima del suo naturale compimento è una mossa potenzialmente fatale.

Spalletti sta costruendo, instillando e trasmettendo la mentalità della grande squadra che deve essere tanto consapevole della propria forza quanto conscia dei propri oggettivi limiti: è un viaggio lungo e travagliato.
Ognuno col proprio viaggio, ognuno col proprio destino: gli uomini di questa squadra, per come si presenta oggi, hanno ritrovato i presupposti per unire i propri destini forti.
Prima della meta godiamoci il viaggio.
Non c'è altra strada.

lunedì 16 ottobre 2017

Black&Blue Monday



Il Blue Monday, per i paesi anglosassoni, è comunemente noto come il peggior lunedì dell'anno, il più deprimente: cade a gennaio ed è stato calcolato sia così tremendo per il meteo nemico, la lontananza percepibile dal Natale, la situazione economica non florida e la pressione che consegue dall'inseguire gli obiettivi che tipicamente ci si pone all'inizio dell'anno nuovo. 
Il Black&Blue Monday, invece, è una cosa diversa: è il lunedì godereccio e vivace della Milano nerazzurra che occupa il suo spazio di routine con l'umore frizzantino e l'adrenalina ancora in circolo.
Il lunedì del tifoso nerazzurro che affronta il mondo esterno con una mano a cercare spesso la tasca dei pantaloni per sentire il derby messo in saccoccia e trarne da esso il beneficio di un talismano dall'energia magica.

Non fai fatica a riconoscerci, se ci guardi bene.
Siamo quelli le cui occhiaie tradiscono le ore piccole della notte prima, abbracciate andando a nutrirsi di qualsiasi cosa rimandi alla vittoria: rassegne stampa, pagelle, articoli di siti specializzati interisti e di rimando quelli specializzati milanisti per cogliere il disappunto di chi invece è atteso da un lunedì molto nero e poco rosso.
E poi ancora: tutte le sintesi possibili, di qualsiasi partito e in qualsiasi lingua, abusando di Youtube, oppure tenere la TV accesa per vedere la replica e capire se vinciamo anche in seconda visione. Sì, vinciamo sempre e la sensazione è sempre bella.
Prendi la metropolitana e nel gioco di sguardi un po' assopiti e un po' curiosi del vagone stipato nel silenzio rotto dallo strepitare del treno sulle rotaie, ti accorgi di quei piccoli particolari che ti svoltano la giornata: chi ha goduto e gode ancora espone un vessillo anche poco invasivo, ma molto incisivo e magari ha in mano la Gazzetta a cui dà la sbirciata galeotta per ricordarsi che è un lunedì dolce e che tutto ciò che vorrebbe fare in quel vagone è esporre la maglia a tutti come l'Icardi immortalato sulla prima pagina.

Pensi a che giornata avrai e ti rendi conto che dovrai prenderti quei 3-4 minuti per rivederti gli highlights: la prima volta per concentrarsi sui gol, la seconda volta per cogliere il boato di San Siro che come vento solare sembra spostare i campi magnetici del pianeta, la terza volta per ubriacarti della gioia che hai provato in quei novanta minuti cristallizzati nella tua memoria. Magari una quarta, una quinta, una sesta volta per risentire le migliori reazioni di chi sta al commento, da uno schieramento e dall'altro.
Prendiamocela mezz'oretta per rivedere il derby, che non ci capita tutti i lunedì.
Mentre cammini in mezzo alla quotidianità di chi sta intorno, cogli le conversazioni altrui e ti verrebbe voglia di inserirti nel mezzo di ogni argomento, che sia lavoro, scuola, famiglia o politica solo per il gusto di dire: "Va bene tutto, ma parliamo un attimo di quanto è forte Skriniar?" e se non vieni assecondato sogni di dare la spallata prepotente ed autoritaria che lo slovacco ha riservato ad André Silva, solo per il gusto di esaltarti emulandolo.
Nella giornata che si sviluppa nello spazio comune, hai l'irresistibile impulso ad inserirti all'interno di ogni gruppetto che accenna minimamente ad un interscambio basato su un pallone che rotola: con nonchalance, fai finta di trovarti lì per caso e al momento giusto intervieni piazzando la fulminea ed inarrestabile zampata alla Maurito che ti fa andar via trionfante.
Tutto ti parla di Inter e vuoi partecipare, instancabile come Vecino, fino a fine giornata: ritrovi qualche istinto rabbioso quando ti capita un contrattempo, una rogna sul lavoro, un malinteso con la moglie e subito la tua mente vola a quel pallone perso da Gagliardini a tempo scaduto che ti ha scatenato i peggio istinti dei predatori che cacciano nella Savana senza alcuna pietà.

Con il rischio di farne una questione di principio che ci distoglierà dalle teoriche priorità del lunedì non festivo, non disdegniamo di marcare il territorio Social con il ghigno della conquista perchè, diciamocelo pure: la speranza di uscire da quel girone dantesco dell'estate 2017 col riscatto sul campo nel derby ce l'avevamo in canna da almeno tre mesi.
La voglia di dare un potente colpo di badile alle litanìe del precampionato, all'assedio medievale dei cuginastri, al loro profilo troppo sfacciato della vigilia faceva di questo derby una rivincita morale che andava perfino oltre le già sature motivazioni emotive di un match come questo.
Vincere così, con un rigore al 90'.
Vincere così, con un Bonucci a tratti alleato.
Vincere così, con quel Rodriguez soffiato sotto il naso che cade nella fesseria più colossale da compiere a tempo scaduto.
Vincere così e sentire gli altri passare da "cose formali" a "Così fa male".
Vincere e avere tre partite di vantaggio a metà ottobre.
Non avreste desiderato nulla di meglio, a un certo punto dell'anno.

Le analisi tattiche, i difetti portati in luce dal calcio giocato (più di uno), la probabilità di schiantarsi a Napoli sabato, la rosa corta, il derby che a un certo punto si poteva anche perdere sono concetti che si potrebbero anche portare alla luce, ma non caricatemi di questa incombenza. Non oggi. Non nel mio, nel nostro Black&Blue Monday.
Oggi voglio sentirmi come un turista in un museo paralizzato davanti all'incorniciata istantanea di Icardi che trapassa quel muro di schiamazzi e risa udite per molto più tempo di quanto si poteva sopportare.
Cala il silenzio insito nell'ammirazione, si staglia un sorriso carico di emozione e tutto il resto si alleggerisce, come etereo.

Perchè domani forse è un altro giorno e si vedrà.
Ma oggi è oggi.
Ed essere interista, oggi, è qualcosa di bellissimo.


lunedì 2 ottobre 2017

Vogliamo le scuse




L'Inter che gioca male.
L'Inter che non merita di affermarsi.
L'Inter che si deve vergognare perché beneficia del VAR, come se le regole fossero un privilegio a cui rinunciare.
L'Inter che ha il calendario troppo facile, i glutei troppo gonfi, la rosa troppo corta, i giocatori troppo umorali, il centravanti che se fa i gol è reo di dimenticarsi della squadra e se fa qualcosa per la squadra è reo di dimenticarsi di segnare.
L'Inter che ha 19 punti e deve scusarsene.

Vogliamo le scuse, Inter: vogliamo le scuse di Spalletti perchè se non batti il Benevento 6-0 non vali un piffero, ma d'altronde se lo batti 6-0 sei capace di fare goleade solo con le squadre già condannate a retrocedere.
Vogliamo le scuse di Brozovic, perché la doppietta da tre punti non conta nulla se la fai a Benevento, a Benevento segnano anche Pierre Wome e Sixto Peralta: non facciamoci impressionare.
Vogliamo dire con convinzione che l'Inter vince a Roma per caso e per culo, ma anche essere impressionati dalla Roma che vince a San Siro creando la metà di quanto abbiano fatto gli avversari: conta il risultato, no?

Vogliamo essere esteti quando la squadra è risultatista, ma sentirci liberi di dire sticazzi all'estetica del Napoli perchè alla fine conta chi vince.
Vogliamo stare nella nostra comfort zone in cui inveire sul fatto che Nagatomo e Candreva facciano espletare funzioni fisiologiche benché abbiano giocato bene a Benevento: a Benevento giocano bene anche Alvaro Pereira e Diego Forlàn, non scherziamo.
Vogliamo poter convincere argomentando che l'Inter non può andare oltre il sesto posto, ma anche reputare una sconfitta morale non stravincere contro chiunque stia sotto le posizioni europee: in altre parole, vogliamo il passo Scudetto come minimo sindacale con una squadra che abbiamo dichiarato essere da Europa League col fiatone.

Vogliamo poter tirare le pietre alla dirigenza perchè cambiando allenatore ogni sei mesi non avrai mai un progetto, ma anche dire a un allenatore in carica da quattro mesi che il gioco è uguale agli ultimi sei anni.
Vogliamo la mentalità della prima Juve di Conte, che nelle prime sette giornate aveva fatto 13 punti facendo 9 gol e subendone tre: avere sei punti e cinque gol fatti in più sono dettagli trascurabilmente casuali, nella classifica della mentalità.
Vogliamo poter asserire che i gol di Icardi vanno pesati a seconda del valore dell'avversario, ma anche aprire il caso Icardi se timbra con Fiorentina e Roma e resta a secco con Crotone e Benevento.

Vogliamo una squadra che ci faccia esultare, ma anche stare alla finestra in attesa della prima sconfitta per premere il pulsante del "l'avevo detto io" prima di tutti gli altri.
Vogliamo poterci affezionare all'aggettivo "mediocre" e provare quello strano senso di ebbrezza ed appagamento che ci dà abusarne, anche se fuori tempo e fuori luogo, anche se il suono diventa più importante del significato.
Vogliamo fare la rivoluzione estiva sul mercato per poter gonfiare la sacca scrotale, per pretendere poi le garanzie e le sicurezze di una squadra collaudata e che si trova a memoria.
Vogliamo una Società trasparente che ci dica come stanno le cose: il tifoso ha il diritto di sapere. Vogliamo poi puntare il dito su Ausilio se ci dice cose realisticamente deprimenti: il tifoso ha il diritto di sognare.
Vogliamo i centrocampisti posizionali del Napoli, gli attaccanti di manovra della Roma, il mercato del Milan, il fatturato della Juve; vogliamo definire Skriniar una turca e paragonarlo una settimana dopo a Samuel, vogliamo lo spettacolo e il risultato, lo yin e lo yang, la botte piena e la moglie ubriaca, l'orgoglio e il pregiudizio, il delitto e il castigo, l'uno, il nessuno, il centomila; vogliamo consumare le partite come uno smartphone, abusarne per arrivare poi a dire che c'è di meglio in commercio, che il telefono fa schifo se telefona ma non fa le foto a 400 megapixel, che non vale niente se le sue prestazioni misteriosamente fanno calare la batteria.

Vogliamo buttare via una squadra se ha problemi da risolvere e fare sfoggio di ricchezza e benessere prendendone una nuova in blocco, vogliamo vomitare rabbia contro i media faziosi per poi pendere dalle loro labbra ogni qualvolta mettono in circolazione una notizia denigrante.
Vogliamo sensazionalizzare sui ragazzini con la mano sinistra e spendere per i campioni con la mano destra.
Quando stiamo meglio vogliamo stare peggio perchè stare meglio è chiaramente la fase antecedente allo stare peggio; quando stiamo peggio vogliamo stare meglio perchè stare peggio è chiaramente la fase antecedente allo stare meglio. 
Vogliamo avere un rapporto sessuale solo per svegliarci la mattina dopo e constatare che è stata una cosa di una notte e mai più. 

Vogliamo tante cose, ma non vogliamo 19 punti su 21: non sono divertenti, non sono avvolgenti, non sono confortevoli, sanno troppo di realtà e poco di sogni, sono troppo veri e poco verosimili.
Vogliamo le scuse, Inter: questi 19 punti parecchi di noi non li meritavano.

mercoledì 20 settembre 2017

Tra palco e realtà



I freddi, ma decisivi numeri portano un sorriso: l'Inter esce da due trasferte in tre giorni con un bottino di quattro punti, risultanti parte di una classifica che dopo un mese dice che la squadra di Spalletti ha perso per strada due punti sui 15 a disposizione.
Bene, bravi, bis: ma i sorrisi finiscono qua.
Tutto il resto visto in queste due prestazioni era già stato accennato parzialmente contro la Spal e non lascia spazio a volti perfettamente distesi perchè evidenzia molto bene dove il mercato dell'Inter non è arrivato in estate. Già in molti avevano messo l'Inter sul palco delle grandi protagoniste, glissando sull'impressione generale destata dalla squadra e nascondendosi dietro il dito delle squadre chiuse che non permettevano a Icardi e compagni di proporre il loro calcio. Il castello di carte è caduto a Bologna, dove c'è stata una squadra propositiva che ha surclassato l'avversario per quasi un'ora e quella squadra no, non era l'Inter.

Il Bologna per più di un tempo ci ha dato un'idea generale di cosa accadrebbe se oggi andassimo ad esempio a giocare a Napoli (a proposito, succederà a un mese da oggi): ci ha messo sotto con poche semplici mosse, tra cui una condizione atletica molto più convincente, un gioco fluido a massimo due tocchi, qualità sugli esterni, una fase difensiva organizzata a cui è bastato mettere la museruola a Borja Valero con il raddoppio della punta su di lui per disinnescare le nostre velleità di gioco corale. Una mossa che Donadoni ha mutuato da Nicola: aveva funzionato con Budimir, ha funzionato con Petkovic. Una mossa elementare che ci porterà spontaneamente la domanda più temuta: " È davvero tutto ciò che sappiamo e possiamo fare?".
La risposta in questo momento è sì, perché la spina dorsale della manovra ha delle vertebre martoriate dall'osteoporosi: parlo ovviamente di Joao Mario, fragile ed inconsistente elemento che dovrebbe essere portante e sta finendo invece con il rendere paralizzato l'intero impianto di gioco. Lì sulla trequarti l'equivoco è ormai di una certa evidenza anche per chi non fa colazione con pane e tattica: il portoghese non sa interpretare il ruolo nelle sue fasi più cruciali, ovvero l'incisività in fase d'attacco e la capacità di prendere decisioni giuste al momento giusto. No, Joao Mario non ha tempi, passo e piede per ricoprire quella posizione fondamentale per Spalletti e ad essere sinceri la colpa non è nemmeno sua: di una quota gol, assist e pericolosità generale non soddisfacente per il ruolo occupato ce ne eravamo accorti benissimo già lo scorso anno, doveva intervenire il mercato, ma sappiamo com'è andata e Spalletti si ritrova a dover fare la zuppa senza avere il fuoco mai abbastanza caldo per portarla a cottura.

La pentola poi deflagra rumorosamente quando viene disinnescato Borja Valero e l'esplosione del problema influisce maledettamente anche sul rendimento di Icardi, che sappiamo bene non essere un top di gamma dal punto di vista delle soluzioni in manovra e che, a Bologna come a Crotone, non riesce proprio a rendere compatibile la sua letalità sotto porta con la capacità di giocare anche venti metri più indietro quando l'attacco diventa prevedibile ed affannoso.
Il risultato, ahimè, diventa lo stesso di sempre: si attua un piano B che diventa convincente se Perisic è in stato individuale di grazia, ma diventa come ieri sera macchinoso e frustrante quando invece le sorti della manovra passano da Candreva che cercando Icardi solo in mezzo a 3-4 difensori finisce per fare il tiro al bersaglio su schiene, piedi e corpi avversari. Evidentemente, non potrà bastare a lungo per inanellare risultati positivi, quando fisiologicamente entreremo in una fase in cui gli episodi di gioco gireranno a sfavore.
La lettura più evidente è che il Borja Valero attuale non è Strootman, Joao Mario non è nemmeno cugino di sesto grado di Nainggolan e Vecino è un giocatore che diventa assolutamente anonimo se attorno a lui non c'è un sistema di gioco propositivo: tutte cose che sapevamo già, ma che ci hanno comunque permesso di mettere l'Inter su di un palco perchè l'idea alla base è golosa e vincente, ma gli ingredienti sono quelli che sono e anche aprendo il frigo per cercarne degli altri da inserire a ricetta in corso, il piatto piange.

Come uscirne? 
La soluzione più immediata sembrerebbe l'apertura ad un cambio modulo, quel 4-3-3 che tuttavia rischia solo di spostare la toppa da una parte all'altra del campo perchè, se è vero che il rendimento di Joao Mario da mezzala potrebbe avvantaggiarsene, resta da vedere cosa cambia in negativo negli equilibri d'attacco. Penso soprattutto al rischio di depotenziare Perisic, che dovendo coprire il campo più all'interno che all'esterno dovrebbe certamente rinunciare all'uno contro uno sull'out come vero e proprio stile di vita. Un problema che potrebbe essere coperto da un terzino bravo almeno la metà di lui in questo fondamentale, si può scommettere su Dalbert ma sempre scommessa rimane: il certificato di garanzia in questo possibile cambio modulo non è di serie, ma passa da una moltitudine di variabili.
Rimane di positivo che i giocatori continuano a sembrare generalmente convinti di ciò che stanno facendo, la stragrande maggioranza di loro sa cosa fare in campo anche se poi non gli riesce, non sono al punto di perdere la brocca e lasciare che tutto vada a carte quarantotto.
La testa è ancora connessa e questa è la miglior base su cui fondare tutto il resto: è un castello di carte che per le 14 partite restanti da qui a gennaio potrebbe benissimo cadere (soprattutto a Napoli e a Torino sponda Juventus), ma su cui la differenza sarà fatta dalla capacità di rimettersi in piedi.

Da qui serve augurare il meglio a mister Spalletti, l'unico che può convincere la squadra di possibilità che al momento la squadra stessa non sa ancora di avere: "o risorgiamo come collettivo o saremo annientati individualmente, centimetro dopo centimetro."
In questo saliscendi tra palco e realtà, non dobbiamo dimenticarci che siamo l'Inter.
E quando sei l'Inter, la tua unica realtà deve essere il palco.