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giovedì 16 luglio 2015

il Fairplay finanziario all'italiana: un tappeto su una voragine


E alla fine ci siamo riscoperti formiche, dopo esserci sentiti dire per anni che eravamo cicale.
Come non fosse bastato un solo Fairplay Finanziario, peraltro messo in discussione in sede legale in tempi recenti, ecco arrivare la versione nostrana del più noto provvedimento già sdoganato in tutta Europa.
Un provvedimento voluto dal Presidente FIGC Carlo Tavecchio sulla scia della vicenda Parma, che ha messo in prima pagina una realtà di incurante speculazione causa di un dissesto finanziario sulla carta inestricabile.
Non c'era bisogno del Parma per capire che ci voleva una riforma, bastava ad esempio scartabellarsi i dossier dei 72 fallimenti (appena saliti a 75) che hanno fagocitato la Lega Pro negli ultimi 7 anni.
Tuttavia vale sempre la regola per cui ubi maior minor cessat e il fatto che ci si sia resi conto in colpevole ritardo che anche nella "fatata" Serie A, dimora fino a ieri di una sorta di incantesimo che l'ha resa finanziariamente dispensata da ogni regola, certe cose possono succedere ha accelerato l'ennesimo giro di vite a breve scadenza.
Vediamo come funziona questa regolamentazione.

TRA "INELEGGIBILI" ED INDICATORI: IL TRIENNIO DI FUOCO - Si parte da un presupposto che dovrebbe essere(condizionale d'obbligo quando parliamo di restrizioni in questo paese) una conditio sine qua non; chi possiede o vorrà possedere più del 10% di un club di Serie A dovrà essere incensurato per quanto riguarda reati puniti con più di 5 anni e in qualsiasi caso per frode sportiva, doping e appropriazione indebita, oltre a soddisfare un requisito di attestata solidità finanziaria attraverso istituti bancari di primaria importanza che ne dovranno certificare l'effettiva solvibilità.
In termini molto schietti, bisogna dimostrare preventivamente di avere un piano infallibile per onorare gli impegni presi.
Il parametro principale su cui i club saranno presi in esame a livello contabile  è chiamato indicatore di liquidità: molto semplicemente, ogni club deve attestare a inizio stagione di avere in cassa le risorse necessarie per far fronte a tutti i pagamenti che si prospettano durante l'anno.
Troppo drastico? Forse. E infatti la Covisoc ha previsto che ci siano altri due indicatori da prendere a parametro aventi la funzione di correggere un'eventuale mancanza di liquidità.
Come l'indicatore di indebitamento, un puro esercizio matematico attraverso cui il rapporto tra debiti totali e media triennale del fatturato non deve superare una determinata soglia che va a farsi sempre più sottile da qui a tre anni e come l'indicatore del costo del lavoro, vale a dire il rapporto tra costo della rosa e ricavi che va a stabilire con immediatezza se il club in questione di può permettersi la rosa che ha a libro paga. 
La percentuale di riferimento va a scalare nel corso di tre anni: 90% il primo anno, 85 il secondo e 80 il terzo. Per renderla facile diciamo pure che a fronte di 100 milioni di media ricavi triennale non potrò spenderne più di 90, 85 e 80 nel corso del prossimo triennio.
Se l'indicatore di liquidità è già a posto non c'è necessità di prendere in esame gli altri due. 
Qualora invece fosse dimostrato il buco di liquidità, con uno dei due indicatori in ordine le proprietà possono avere un terzo dello sconto su quanto devono immettere per coprire il suddetto buco, con entrambi gli indicatori correttivi in ordine lo sconto sale a due terzi della cifra costituente l'ammanco di liquidità.
Tutto questo va fatto in tempi stringatissimi, nonostante la gradualità: il mancato rispetto delle norme porterà all'obbligo di presentare un riequilibrio dei conti per questa stagione, al totale autofinanziamento del calcio mercato se la violazione si protrae al 2016/17 e  infine alla mancata iscrizione al campionato 2017/18 in caso di terza violazione, per poter così arrivare all'obiettivo principale valido per tutti: il pareggio di bilancio per la stagione 2018/19.
Se il 18/19 fosse oggi, parola di Tavecchio, solo cinque club sarebbero iscritti al campionato.
Lo potreste mai ritenere possibile, in un paese come l'Italia?

UN VENTENNIO DI POLITICHE MIOPI  - Tutta questa voglia di pareggio di bilancio in fretta e furia fa letteralmente a pugni con quanto si è deciso attorno al calcio italiano negli ultimi 20 anni.
In sostanza è come se foste incoraggiati a fare un utilizzo smodato di un edificio, usurandolo senza mai preoccuparvi di dovervene prendere cura e vi dicessero dopo un ventennio di eccessi a cuor leggero che avete 3 anni per ristrutturarlo a vostre spese e riportarlo ad uno stato nuovo, quasi fresco di costruzione, pena lo sfratto senza troppi problemi.
La storia inizia simbolicamente nell'Agosto del 1993, allorché la nostra Serie A conosce per la prima volta l'ebbrezza della paytv e negli anni perde letteralmente la testa, considerando una miniera inesauribile ciò che negli anni la ormai antica Tele+ versa annualmente ai club. Tra il 1996 e il 1999 piovono sui club 400 miliardi delle vecchie lire che i Presidentissimi di allora si possono intascare pressoché integralmente, grazie a una mossa del governo allora in carica che abroga un obbligo di reinvestire in attività sportiva fatto salvo per un misero 10% da destinare ai vivai di cui nessuno tiene ormai più conto.
Al termine del triennio, altro provvedimento ad hoc dal governo: i club potranno dalla stagione successiva (99-2000) andare a trattare direttamente i diritti tv con le emittenti senza più passare dalla Lega Calcio. Grazie alla discesa in campo di Stream il giro di introiti esplode ed arriva a 1000 miliardi di lire, ma tali risorse iniziano a creare una forbice sempre più incolmabile tra i club con maggiore bacino di utenza e quelli minori, creando una mappa geopolitica che darà luogo alle famose "sette sorelle" di cui parlano quotidianamente i giornali in quegli anni.
La situazione sfugge del tutto al controllo, perchè i diritti tv diventano l'unico credo di chi naviga nel calcio italiano di alto livello ed altre entrate come botteghino e sponsorizzazioni commerciali iniziano ad essere snobbate senza che nessuno faccia nulla per preoccuparsene. Questo diluvio di milioni uscirà senza nemmeno il tempo di averlo incamerato per pagare stipendi, cartellini e ammortamenti di giocatori sempre più pagati nella corsa al campionissimo in corso in quegli anni: in pratica tutto l'indotto dalle televisioni viene eroso in costo del personale mentre altrove inizia una politica di salvaguardia degli investimenti mirati e del virtuosismo di cui vediamo gli effetti oggi.
Il problema italiano è che non c'è solo il personale da foraggiare ma anche importanti costi di gestione a cui far fronte: la corsa a chi compra a cifre più alte non si ferma neanche lì e gradualmente le casse si svuotano fino ad arrivare ad un indebitamento di circa due miliardi di Euro  nel 2003.
Ristrutturazione? Manco a parlarne, meglio la scorciatoia contabile. Come le false plusvalenze: un giro di soldi virtuali che drogano i bilanci di Società che si scambiano vicendevolmente cifre assurde per giocatori il più delle volte quasi mai scesi in campo. L'alleanza più proficua in questo senso è quella Lazio-Parma, i due club i cui presidenti non a caso faranno crack di lì a poco ma anche il giro di giovani e carneadi (Brncic uno su tutti) inscenato tra Inter e Milan e le plusvalenze dorate della Roma nelle vendite al Palermo (club con lo stesso proprietario, Franco Sensi) fanno la loro parte.
Quando Gazzoni denuncia il giochetto il governo interviene nuovamente con il famigerato decreto salvacalcio, che permette di svalutare il parco giocatori su 10 anni permettendo ai club più erosi (soprattutto le milanesi e le romane) dalla gestione spendacciona di assorbire perdite altrimenti devastanti. Un provvedimento che poi la Commissione Europea attraverso Mario Monti ridurrà a soli 5 anni inguaiando parzialmente soprattutto il Milan e l'Inter, che dopo le rispettive Champions League conquistate saranno costrette a una dieta forzata ben lontana dai lustri di un tempo.
Fino all'ultima energica spintarella che le istituzioni danno ai club nel 2007 per mettere una pezza allo sconvolgimento creato da Calciopoli: non si tiene più conto del rapporto tra debiti e ricavi purchè si inquadrino i requisiti aziendali previsti dal Codice Civile e si sia a posto con i contributi. Un'ulteriore benda che le istituzioni si mettono per fare in modo che i fatti di Calciopoli e le conseguenze in termini finanziari non finiscano per ammazzare la Serie A (che come movimento, a giudizio dello scrivente, muore lì) e che non tiene contro tra le altre cose dei debito verso fornitori e dello stato patrimoniale di eventuali controllate facenti parte dei club.
La tabella riferita al 2013/14 mostra come i ricavi della Serie A siano ancora quasi interamente erosi dal costo del personale

Ecco come si spiegano in parte i 75 fallimenti in Lega Pro di cui si parlava prima, orde di mancate iscrizioni e ripescaggi continui in Serie B e il dramma in cui è passato il Parma.
Dopo un ventennio passato a finanziare un'esorbitante spesa corrente pur di non implodere definitivamente piuttosto che programmare l'ingresso nel futuro attraverso lungimiranza e investimenti a rendere, dopo una voragine creata dall'incapacità e dalla connivenza di governi e dirigenza oggi si introduce un regime di tolleranza zero in pochissimo tempo, sulla carta impossibile senza qualche artificio finanziario.
E' peraltro in questa situazione che sta venendo fuori il calciomercato più esoso degli ultimi 15 anni: club che dovrebbero in teoria tagliare qualche costo per adeguarsi al provvedimento drastico in arrivo, spendono invece cifre che non vedevano da una vita. Una coincidenza dal tempismo davvero azzeccato, non trovate?

IL MIRAGGIO DEGLI STADI - Ad aggravare ulteriormente la situazione dei ricavi che non ci sono, la questione stadi: una legge invocata per anni ed anni che è arrivata a compimento solo nel Dicembre 2013 con la legge di stabilità.
Anche in questo caso alle spalle c'è un'infinità di palliativi e responsabilità maldistribuite che hanno bloccato un processo di rinnovamento completamente bypassato dalla scellerata gestione sui mondiali Italia '90, in cui si è badato più a gonfiare le spese per favorire gli amici degli amici piuttosto che a creare delle strutture ancora godibili dopo un ventennio (L'Amsterdam Arena, per dire, risale al 1996).
Per non occuparsi del problema ci fu detto ad esempio che la colpa era degli ultras che allontanavano dallo stadio le famiglie, quando è un dato di fatto che negli anni '80, periodo di massimo splendore negli stadi italiani, la violenza era un problema molto più serio. Ovviamente il problema c'è e non si può negare: ma valeva forse provvedimenti francamente discutibili come la Tessera del Tifoso, un fallimento per tutti tranne per le banche che l'hanno fatta emettere, i tornelli, i biglietti nominali e tutti quei provvedimenti svuotastadio visti in questi anni? Sicuramente ci hanno guadagnato le televisioni, che oggi comandano la baracca facendo il bello e il cattivo tempo sul campionato spezzatino che siamo abituati a vedere.
Mica come in Inghilterra, dove un terzo delle partite sono private delle telecamere sin dagli anni '90 per preservare gli incassi del botteghino in stadi ben diversi da quelli italiani.
L'emendamento attuale sugli stadi, finalmente approvato, presenta semplificazioni burocratiche non indifferenti rispetto al passato ma anche un grosso limite: per prevenire ogni forma di corruzione esiste un vincolo che non permette di includere ogni forma di edilizia residenziale intorno allo stadio.
Se da una parte si evitano colate di cemento incontrollate, dall'altra si scoraggia in partenza il privato che parteciperebbe ad un progetto di questa portata solo attraverso un tornaconto con cui rientrare nell'investimento: senza edilizia privata, i club dovranno fare da sé con tutti gli annessi e connessi del caso.
Stimando inoltre che la Serie A perde un potenziale miliardo all'anno in giro di affari a causa dell'arretratezza delle sue strutture e dei mancati incassi dal "matchday" che altrove fanno la differenza sul bilancio.
Non sarebbe stato il caso di attendere la creazione di una struttura seriamente sostenibile prima di varare provvedimenti che rischiano ancora una volta di spingere verso la scappatoia contabile piuttosto che sull'investimento?

Tavecchio ha ragione, non è lui l'inadeguato. Tutto sommato le riforme sono concettualmente interessanti, pur potendosi sviluppare meglio a parere di chi scrive.
L'unico soggetto inadeguato in tutta la faccenda è l'immaginario soggetto giuridico Calcio Italiano Spa e tutti coloro che lo hanno avvelenato inventandosi poi l'antidoto.
Chi pagherà davvero, alla fine di tutta la storia?




Nota a margine: consiglio per approfondire la vicenda la lettura del libro "Goal Economy" di Marco Bellinazzo, da cui molti degli spunti di questo post provengono.





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