Insieme.
Si vince, si perde, si abbraccia la gloria o si è travolti dalla tempesta insieme.
Essere una squadra non è una faccenda per supereroi incaricati di salvare il mondo con poteri che nessuno possiede, quanto più per eroi normali, eroi che riescono in qualcosa di straordinario attraverso l'intuizione di poter essere protagonisti insieme là dove da soli andrebbero incontro al convenzionale fallimento di chi ha creduto di poter fare tutto da sè.
"Lupatelli; Moro, D'Anna, D'Angelo, Lanna; Eriberto, Corini, Perrotta, Manfredini; Marazzina, Corradi". Starete riconoscendo buonissimi giocatori, ma trovate forse un grande campione consegnato alla storia del calcio in questo elenco? Eppure questi uomini ed i loro comprimari sono ricordati come una sola cosa, un'entità chiamata Chievo dei Miracoli che come entità si è consegnata alla storia del calcio, quantomeno di casa nostra, nel momento in cui gli uomini che la componevano hanno capito che da soli non avrebbero avuto mezzi e forza per poter essere associati ad un'impresa fuori dal comune.
E gli esempi non finiscono certo qui: pensate al Camerun di Italia '90, al Deportivo Alaves della Coppa Uefa 2001, Al Senegal ed alla Turchia del 2002, alla Grecia di Euro 2004, al Borussia Dortmund di Klopp, all'Atletico Madrid di Simeone.
O più semplicemente pensate all'Inter del Triplete e chiedetevi se avrebbe potuto raggiungere tale magnificenza senza un Eto'o che accetta di rinunciare al suo ruolo di affermata e conclamata prima punta per essere funzionale al collettivo facendo il terzino.
Tutte realtà ove il singolo ha scelto di spostare i riflettori sui compagni piuttosto che tenerli su di sé, tutte realtà che, se non hanno vinto, hanno stupito e attirato chi li stava ad osservare, tutte realtà che hanno portato ad esclamare: "Questa è una squadra!".
Quando c'è una squadra ci può essere spazio per i problemi del singolo solo nel momento in cui suddetto problema diventa critico per il collettivo, quando c'è una squadra non importa chi passa il pallone a chi purché quel pallone sia vincente, quando c'è una squadra ci sono uomini a credere che il risultato da raggiungere insieme sia immensamente più alto del risultato a cui si arriva da navigatori solitari.
Come un'orchestra, perfettamente sincronizzata ed in cui anche il più piccolo strumento è importante.
La domanda é: oggi l'Inter è un'orchestra? E, se lo é, sta davvero cercando solisti?
L'Inter è un'orchestra, o quantomeno ambisce ad esserlo, ma è incompleta: non mancano i percussionisti, quanto più archi e violini e ci si deve arrangiare nel trovare un ritmo consistente anche senza dolci melodie.
Se c'è una cosa che però adesso non serve sono i solisti, giacché si possono fare tutti gli assoli del mondo ma non saranno mai efficaci e funzionanti se non seguono il ritmo di chi sta battendo su tamburi e percussioni.
Oggi ho l'impressione che quel solista vorrebbe essere Mauro Icardi quando al pubblico fa sapere che se gli danno il tempo lui l'assolo lo farà, ma ho anche l'impressione che sarebbe decisamente più utile cambiare la prospettiva, intuendo che la musica suonata dall'orchestra non è finalizzata all'assolo del solista, ma alla melodia collettiva.
E che è proprio l'assolo del solista a dover cercare i binari di tempo e spazio in cui andarsi ad inserire, altrimenti finisce che l'orchestra rinuncia all'assolo per suonare una musica forse meno coinvolgente, ma quantomeno efficace e coordinata.
L'Inter non è certo una filarmonica da grandi teatri, ma ogni volta che Icardi smette di suonare perché la melodia non è quella che desidererebbe è come se autorizzasse implicitamente ognuno ad andare per conto suo.
Il Capitano dell'Inter può essere il primo a mollare lo strumento, far volare lo spartito e salutare la compagnia?
Solo questo vorrei dire a Mauro Icardi: nessuno è più importante della squadra.
Questa sera, nella notte di Inter-Roma, lo vorrei vedere proprio come nell'immagine qua sopra tendere la mano verso il compagno, rassicurarlo sul fatto che sarà lui a condurlo verso orizzonti di vittoria, a confortarlo sul fatto che l'Inter è una squadra e come una squadra deve costruire la sua storia.
Con quella mano tesa, che non significa "ci penso io" quanto più "venite con me e andiamo a vincere".
Andiamo a vincere.
Insieme.
"Non si pensa mai ai nostri giovani, ai nostri vivai, siamo affetti da esterofilìa".
Sono le parole che sentiamo una volta a settimana (per stare stretti) rimbombare dalle trombe gonfiate dei nostri media più grossi e influenti, senza che poi si vada realmente a spiegare l'iceberg che fa emergere questa punta.
Perché forse non conviene poi così tanto al sistema calcio che si faccia emergere il backstage di uno spettacolo sempre più prodotto e sempre meno spontaneo, a partire dallo stato comatoso in cui versa oggi il calcio giovanile.
Se ne è parlato in profondità all'Arena Civica "Gianni Brera" di Milano sabato 24 ottobre, in una mini convention a cui sono stato fiero di partecipare e dove non ho visto telecamere né noti taccuini a prender nota di quanto si stava dicendo a proposito di Giovani Promesse e di dove va a parare il calcio moderno (questo il nome dell'evento).
La copertura mediatica totalmente assente si sottolinea nel fatto che l'evento non è stato annunciato né riportato in nessun trafiletto di alcun quotidiano o sito web.
Il discorso portato avanti da Felice Accame, docente di Teoria della Comunicazione presso il centro tecnico della FIGC, è stato concettualmente semplice nella sua ricchezza di linguaggio: il calcio giovanile non è nient'altro che un ascensore sociale, a volte una fastidiosa anticamera di chi insegue il mondo dorato del professionismo ad alto livello pensando che magari sia un diritto dovuto e che questa è una caratteristica che non riguarda solo i ragazzini ma anche gli allenatori.
I ragazzini, poi, non decidono da soli un'ambizione di cui non possono avere la fotografia completa e formata, quindi va da sè che dietro l'eccitazione di un ragazzino c'è un genitore che carica a testa bassa perché il sangue del suo sangue arrivi dove magari non è mai riuscito ad arrivare lui, in un mondo spettacolarizzato.
Un mondo dove nei corsi di formazione ai DS, spiega sempre Accame, l'argomento ormai cruciale è quello dei diritti Tv che questo prodotto lo devono vendere e non è raro che si inviti al finto litigio tra allenatore e giocatore per rendere più appetibile l'immagine dagli spogliatoi, una delle altre diavolerie di contorno al calcio di cui tutti potremmo fare a meno (come ne abbiamo fatto tranquillamente a meno fino a un lustro fa) e che viene invece pubblicizzata come una grande ed irrinunciabile esclusiva.
Sul fatto dei genitori troppo spinti ha parlato con dovizia di particolari Sanzio Anzani, Responsabile Tecnico Pre-Agonistica P.D.Cimiano che con questo problema nella sua scuola calcio ha a che fare tutti i giorni e che assicura come la valenza pura del calcio sia ormai irrimediabilmente svanita, perdendo totalmente di vista perchè un bambino dovrebbe giocare a pallone per se stesso e la sua formazione attraverso lo sport, piuttosto che per riempire i vasi spesso di coccio che gli fanno dalla tribuna le richieste più assurde.
Ad esempio, spiega Anzani, capita di vedere bimbi del 2010 che si sono avvicinati al calcio da tre settimane che, in una partita 5 contro 5 senza alcuna pretesa, vengono ripresi dai genitori perchè non fanno il contromovimento ad evitare la marcatura avversaria.
Bambini di cinque anni che sono ostaggio di genitori-allenatori in preda a deliri di onnipotenza ed imposizioni tattiche che non hanno alcun senso di esistere: come se a un bimbo alla prima lezione di chitarra venisse imposto l'assolo di "Smoke on the Water" e guai a sbagliarlo.
Una bella fotografia della totale irragionevolezza e schizofrenia in cui le nuovissime generazioni stanno crescendo.
Non c'è bisogno di andare molto lontano, comunque: provate ad andare a seguire una partita di ragazzini nel campo più vicino a voi e nove volte su dieci vedrete genitori che dicono e fanno cose ben peggiori dei tanto additati ultras, soprattutto perchè lo fanno di fronte ai loro figli: una logica in cui l'avversario di turno diventa un nemico da cancellare ad ogni costo e con ogni mezzo ed in cui il messaggio che passa è che il fine giustifica sempre i mezzi e che la competizione spinta può calpestare senza problemi i valori che lo sport, per come lo intendo io, dovrebbe trasmettere.
Finisce che poi i bambini si rompono le scatole e abbandonano: in un'esperienza di un bambino di 10 anni raccontata dalla scrittrice e drammaturga Elisabetta Bucciarelli, traspare tutto meno che il sacrosanto divertimento che il pallone dovrebbe dare all'infanzia.
In nome della vittoria si può anche non parlarsi e non fare gruppo, in nome della vittoria si può essere portati in trionfo se va bene o essere caricati di critiche e pressioni se va male.
Questo è raccontato dall'esperienza: un bambino che si allontana irrimediabilmente dal calcio e dichiara di non essere pentito, perché a fare il professionista senza averne l'età e il dovere, il gioco non vale più la candela.
Per un caso come questo ce ne sono un'infinità di altri dove lo spiraglio di ascesa sociale fa la differenza: lo spiega benissimo Luca Vargiu, autore e intermediario sportivo, quando dice che ci sono 600mila ragazzini che giocano e 2500 posti tra i professionisti, molti dei quali restano occupati per 10-15 anni.
Non serve essere matematici per capire che il rapporto è sbilanciato in maniera imbarazzante verso chi non ce la farà, ma guai a tentare di spiegarlo: l'intermediario deve vendere la possibilità che invece sia tutto semplice e fare così soldi e carriera maneggiando i sogni degli altri, questa è la situazione che alla fine rimane del calcio giovanile.
Con genitori che pettinano i loro bimbi come Vidal e li espongono come fenomeni circensi a fare doppi passi ed elastici nei video che mandano agli intermediari come Vargiu per sponsorizzare le loro creature.
Se l'intermediario li informerà che farcela sarà durissima è lui a sbagliare nel dire la verità, perché in questo mondo fatto di chiacchiere ed ipocrisie c'è anche chi si è convinto che sia meglio vivere in un incantesimo piuttosto che adeguarsi alla realtà.
E dunque, continua Vargiu, si crea un vero e proprio listino prezzi: pagare per giocare, una pratica diffusa e taciuta nei piani bassi del professionismo.
In questa finanziarizzazione spinta, descritta da Pippo Russo che ai frequentatori del mio blog è un nome arcinoto, oltre a creare un percorso totalmente diseducativo in relazione se orientato ai valori dello sport succede anche che ci siano diritti di formazione rivendicati da più parti nel momento in cui il ragazzino diventa un uomo pronto al grande salto: ecco come un giovane calciatore italiano fa schizzare la propria valutazione, in modo che chi gli è stato intorno concretamente o meno riesca ad aggiudicarsi una fetta della torta.
Non stupisce allora se nelle giovanili diventa più conveniente e semplice andare a pescare il ragazzino africano, che costa pochissimo alle Società e non necessariamente guarderà schifato l'intermediario se gli si dice che ci può essere posto per lui nei campionati dilettantistici come invece succede spesso, secondo quanto riferito da Vargiu, se questa proposta la si fa a ragazzi e genitori nostrani.
Il fatto che poi ci sia una formazione di qualità, riferisce Accame, importa poco e niente alla FIGC che non aggiorna i corsi di formazione su elementi fondamentali per la crescita dei ragazzi da almeno 30 anni, quando fu introdotto un corso sulle tecniche di comunicazione essenziali per spiegare ai ragazzi nel modo giusto i principi di tecnica e comportamento calcistico.
Conta invece la quantità delle formazioni, pur essendo queste spesso il veicolo per spiegare come si possa diventare un possibile ingranaggio di uno show business che mentre mostra la faccia migliore alle televisioni vede una miriade di società dilettanti e professionistiche chiudere bottega dall'oggi al domani.
I media, poi, saranno sempre meno avvezzi a controllare queste situazioni visto che esistono partnership, come ad esempio quella tra il Corriere dello Sport e la FIGC, che non dovrebbero mai esistere, dal momento che il controllante ed il controllato non dovrebbero mai stringere accordi commerciali per non incorrere nel famigerato conflitto di interesse.
Il calcio giovanile in Italia sembra oggi un paziente in coma a cui viene messa una flebo ogni tanto per non interrompere le funzioni vitali minime, mentre fuori dalla stanza in cui è ricoverato c'è un gran vociare di dotti, medici e sapienti che litigano sulla cura senza mai visitare il paziente, perchè in fondo se il paziente si riprende può anche essere che posto per i loro ruoli e le loro opinioni domani non ci sia più.
"Non si pensa mai a nostri giovani", dicevamo.
Se dicessimo però "non vogliamo pensare ai nostri giovani" saremmo meno ipocriti e più concreti.
Caro Sig. Bucchioni,
le scrivo una lettera aperta nel tentativo di confrontarmi con lei su alcuni temi che ha recentemente trattato, senza alcuna presunzione e nel massimo rispetto della sua figura.
Ritengo opportuno un preambolo di presentazione: ad oggi sono un blogger, giornalista pubblicista in qualifica e quando lei ha iniziato ad esercitare la professione io non popolavo questo pianeta.
Tuttavia oggi ho un'eta sufficiente per avere un barlume di ragione, qualche collaborazione su qualche sito sportivo, qualche conoscenza sull'universo calcistico sviluppata attraverso letture, studi e fortunati incontri, pochi(ssimi) emolumenti e un blog attraverso cui esprimermi liberamente.
Non mi nascondo nel dire che sono un tifoso interista dalla nascita e che ho spesso abusato di tale posizione per prendere le difese del club quando maltrattato, ma oggi non sono qui per difendere l'Inter ma per difendere la buona informazione, basata su fatti e riscontri.
Ho la fortuna e il privilegio di poter seguire le vicende della mia squadra da vicino e dovendo costruirmi una credibilità sufficiente da garantirmi il proseguio di questa avventura non posso fare altro che documentarmi continuamente su quanto accade all'interno ed intorno al club.
Ieri sera su imbeccata di un professionista che stimo e da cui cerco di imparare qualcosa come Andrea Montanari, ho seguito la puntata di Calcio € Mercato su Sportitalia e mi sono trovato ad ascoltare i suoi interventi ponendomi delle domande sulla totale dissonanza di contenuti tra quanto stava esprimendo lei e quanto ho riscontrato io ed altri miei simili con cui c'è stato confronto sull'argomento.
Ho seguito in diretta la trasmissione e ho trovato poi la trascrizione delle sue parole sul sito InterNews e su queste vorrei proporle il mio punto di vista, argomentando perchè il suo intervento non mi ha affatto convinto.
Vado con ordine:
«Mi sembra che l’Inter abbia investito molta su se stessa, che pagherà fino al 2017 i giocatori che ha acquistato quest’estate. Se non dovesse andare in Champions League, sarebbe una situazione allucinante. Il caso Parma potrebbe non essere l’ultimo in Italia»
Partirei dal fondo: il paragone con il Parma.
Ora, che il Parma (e con lei 75 club tra Serie B e Lega Pro in 7 anni, tra l'altro) sia fallito lo sappiamo tutti ma sul perchè sia fallito aprirei un piccolo dibattito con lei.
Punti di contatto tra Parma e Inter ne vedo veramente pochi, a partire dall'ordinamento giuridico che contrappone la Srl che fu il club ducale alla Spa che è tuttora il club nerazzurro. Non è un particolare da poco, considerando che per costituire la prima serve un capitale sociale di almeno 10.000 euro e per dar vita alla seconda il capitale dovrebbe essere 5 volte maggiore.
Il Parma nell'estate 2013 aveva 230 giocatori a bilancio nel tentativo di formare una sorta di network internazionale utilizzando come sponde Gubbio e Nova Gorica (Slovenia), valore a cui è stata data una decisa sforbiciata a seguito della nota non concessione della licenza Uefa. Inoltre nella medesima stagione il mercato dei ducali ha avuto un saldo netto di € 55 milioni in ricavi ed € 108 milioni in costi.
L'Inter ha sicuramente una situazione di squilibrio finanziario da sistemare, ma di cartellini sotto controllo ne ha molti meno nonostante la Società sia maggiormente strutturata e popolata di quella del Parma; inoltre non ha portato i suoi debiti da 16 a 197 milioni in otto anni mantenendo lo stesso giro di affari come operato dal club ducale e nessun revisore ha finora evitato di garantire la continuità aziendale, che per l'Inter è garantita almeno fino al Novembre del 2016.
Le lascio quindi in eredità una domanda: come esattamente la situazione gestionale ed amministrativa dell'Inter potrà mai assomigliare a quella del Parma?
La Champions League è urgente, ma la situazione allucinante a cui lei ha fatto riferimento è possibilmente rattoppabile con qualche cessione eccellente, con almeno tre giocatori che ad oggi possono superare i 25 milioni di Euro di valutazione, portando in cassa quanto non introitato dalla Champions League con lo svantaggio di un ridimensionamento tecnico e con l'aggravio di un possibile provvedimento Uefa.
Come nota a margine, cosa detta da nessuno ieri in studio, aggiungo che durante la sessione di mercato l'Inter ha ricavato dalle cessioni una cifra maggiore rispetto a quanto ha effettivamente speso.
In un quadro come questo, i presupposti per un caso analogo a come si è strutturato quello del Parma sembrano assolutamente inesistenti: lascio a lei ogni opportuna valutazione in merito.
«Se Erick Thohir non fosse intervenuto due anni fa, l’Inter sarebbe fallita. Ha spalmato il debito di Massimo Moratti, ma i soldi da pagare restano e sono spese di una follia assoluta. Nel calcio uno più uno raramente fa due, ma non è certo che arrivi primo con la squadra più forte del Mondo. E l’Inter ce la fa ad arrivare prima o seconda?»
In aggiunta a questo virgolettato riportato dal sito citato più su, ricordo di aver sentito nitidamente una sua frase: "l'Inter oggi è tecnicamente fallita".
Vorrei oggi approfondire e chiederle cosa racchiude quel "tecnicamente fallita".
Io non sono né un analista né un lupo di Wall Street ma sono certo che ci siano delle leggi fallimentari che disciplinano tale materia e che andrebbe accertato uno stato di insolvenza che ad oggi nella holding controllante l'Inter non è riportata in nessun documento, né è mai stata certificata in passato.
Se il concetto si riferisse alla perdita c'è da dire che, fermo restando che i soci hanno sempre coperto integralmente le perdite, le perdite di bilancio non sono il presupposto del fallimento come invece è l'insolvenza, mai stata attivata fino a questo momento né dai creditori né da un PM.
Mi sento di poter dire che l'Inter non sia tecnicamente fallita come non lo era due anni fa, quando Moratti ripianò di tasca sua nell'ultimo CDA da Presidente dell'Inter circa € 80 milioni di perdite e quando Thohir era in procinto di entrare come azionista di maggioranza e non come commissario straordinario né curatore fallimentare.
Spero infine di trovarla d'accordo se le faccio notare con gentilezza che, se nel calcio giocato uno più uno può fare tre, in economia anche calcistica uno più uno farà sempre ed inesorabilmente due.
«Moratti è il responsabile di questa situazione e adesso fa la “furbata” per non tirare fuori altri soldi per quel 30%, in caso di aumento di capitale. Cerca di scappare ancora una volta, perché se c’è da capitalizzare verrà chiamato in causa ancora. Tutti aspettano, ma l’Inter è sull’orlo del fallimento, anche se ci dicono che non è vero. Anche andando in Champions League, 50 milioni non basteranno per riprendersi».
La "furbata" a cui lei si riferisce è scappare per non ricapitalizzare, ma non sembrerebbe un comportamento logicamente esplicabile nel momento in cui ci sono accordi di governance siglati durante il passaggio societario che indicano, tra le altre cose, come per un aumento di capitale nell'Inter ci sia bisogno dell'approvazione del 90% del CDA e quindi anche della parte di consiglieri legati al 30% che Moratti possiede.
Massimo Moratti può quindi scegliere di dire no all'aumento di capitale, come peraltro già fatto a cavallo tra il 2014 e il 2015, senza bisogno di scappare da alcun obbligo.
Questo peraltro è anche il motivo per cui c'è bisogno dei prestiti fruttiferi di Thohir che lei ha contestato durante l'intervento (l'alternativa è il bond di cui si è parlato in primavera).
Io non so dire con certezza se l'Inter sia sull'orlo del fallimento, anche se credo che il bilancio abbia riserve abbastanza capienti da assorbire le perdite, ma sono certo che non lo possa dire nemmeno lei perchè il dettaglio del bilancio consolidato, quello recante i 140 mln di perdite su cui il suo intero discorso è basato, non è ancora stato redatto né pubblicato e non è pertanto possibile verificare parametri come EBIT o Patrimonio Netto che sono indicatori piuttosto sintomatici sull'effettivo stato di salute o malattia di un'azienda.
«L’Inter come fa a fare mercato a gennaio? Con quali soldi? Il debito c’è e soprattutto c’è il rischio di sforare i parametri del Fair Play Finanziario. Quest’anno al Barcellona hanno bloccato il mercato, l’Inter è sulla stessa strada. Thohir presta i soldi all’Inter e chiede gli interessi? Mi sembra un’assurdità. Di mestiere fa il finanziere, se si stanca di fare questo “gioco”, cosa rimane dell’Inter?».
Questa, vorrei dirlo francamente, è la parte che mi ha lasciato più perplesso.
Il virgolettato non lo riporta ma la sua invocazione sul blocco mercato si riferisce a "la Fifa, che ha bloccato il mercato del Barcellona sulle stesse basi".
Ora: il Barcellona sta per sforare il tetto dei 600 milioni di ricavi, una cifra faraonica che Juventus, Inter e Milan non riescono a raggiungere da sole e che non riusciremmo a raggiungere nemmeno volendo unire gli sforzi delle nostre italiane più blasonate.
La Fifa non interviene peraltro su questioni economiche legate ai club europei lasciando il compito alla Uefa, giacché sul Barcellona prese il provvedimento per irregolarità nel trasferimento di calciatori minorenni e non certo per questioni amministrative.
C'è sicuramente il rischio di sforare i parametri del Fairplay finanziario, che non saranno però presi in esame prima del Giugno 2016, quando il bilancio dell'Inter non dovrà essere più oneroso di -30mln: io non so dire con certezza se tale parametro verrà rispettato ma anche qui sono certo che non lo possa dire nemmeno lei.
Il mio confronto con lei termina qui, Sig. Bucchioni.
Spero di aver espresso in maniera esauriente e senza acredine alcuna i miei dubbi sul suo intervento.
Non metto in discussione che alla fine della storia lei possa avere ragione, ma sono certo che se ciò accadrà non sarà per le ragioni da lei elencate ieri sera che, documenti e numeri alla mano, non rispecchiano la realtà delle cose.
In nome della buona informazione basata su fatti e riscontri, spero di poter avere meno perplessità in seguito ai suoi prossimi interventi.
Rispettosamente la saluto e le auguro buon lavoro.
Fulvio Santucci