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lunedì 16 gennaio 2017

Pioli N°5



Le fragranze uniche ed inconfondibili le si riconoscono al primo colpo.
Quando l’olfatto si attiva e quelle fragranze entrano in circolo, affiorano alla mente immagini e sensazioni, forme e colori, stati d’animo ed alchimie.
La scia di profumo che riempie i sensi da sabato sera, pur essendo stata presente anche prima, riporta a piccoli momenti di trionfo, sensazioni di sicurezza ed autostima, un che di eccitante ed elettrizzante nel volgere lo sguardo verso il futuro.
Se le prime due versioni di questa fragranza erano embrionali, la terza ha iniziato a sprigionare un’essenza molto definita e la quarta ha perso un po’ della sua forza mischiandosi al sudore, sulla quinta di dubbi non ce ne sono: è la fragranza tipica dell’Inter di Pioli.

A cominciare dall’atteggiamento dell’avversario: sembrano davvero lontani i tempi in cui la medio-piccola di turno accarezzava la folle idea di farsi un picnic a San Siro con tanto di banchetto allestito per un suo risultato storico.
Il Chievo di Maran deve aver visto il rendimento dell’Inter negli ultimi due mesi a San Siro (cinque vittorie di fila, mediamente tre gol a partita realizzati) e facendosi due conti aver deciso che il buffet da tre punti poteva serenamente diventare un pranzo al sacco da un punto.
Non inganni, in caso di  mancata visione del match, la mezz’ora di gioco in cui i mussi si sono ritrovati con la testa avanti perché il gol di un Pellissier eterno e ancora di un’altra categoria rispetto ai compagni non è frutto di una ricerca studiata del bersaglio, ma di un tentativo di sortita offensiva, più per ossigeno alla difesa che per convinzione, andato oltre le più rosee aspettative.
Il confronto nella zona nevralgica, quella di mezzo, è senza storia sin dalle prime battute: nonostante un uomo in meno, Gagliardini e Kondogbia bastano e avanzano per desinare sul capo dei tre clivensi, con il solo Castro a permettersi di tanto in tanto qualche soddisfazione sui contrasti.
Mentre mi rendevo testimone di questo atto di forza, pensavo che in altre epoche avremmo probabilmente visto nella stessa zona Medel a uomo su Birsa
Il ragazzo arrivato dalla provincia, con un numero di maglia che sembra un preambolo logico alla fragranza che si diffonderà a fine partita, gioca con la sicurezza di chi ha capito perfettamente cosa deve fare in campo: accorcia, difende, palleggia, svaria, trova addirittura l’inserimento andando a svolgere il lavoro che ad un Joao Mario con le pile scariche non riesce.
Capire cosa fare in campo non è un concetto facile né garantito nell’Inter degli ultimi anni: se il Gaglia gioca con ordine e convince è anche perché l’impianto tattico è consolidato e, fino a questo momento, vincente.
Può anche non essere un caso allora se, in una situazione chiara e fluida, anche il buon Kondogbia può sbocciare nonostante lo avesse già fatto ad Udine nel pregiudizio di chi non aveva occhi per vedere.

Ecco un altro ingrediente dell’alchimista Pioli nel pentolone: la chiarezza identitaria.
Far capire a tutte le sue risorse che c’è un linguaggio comune, che non si cambiano i propri principi, che l’avversario non è una variabile per cui nascondersi, ma l’occasione per tirar fuori il proprio potenziale.
Quanto tutti riconoscono ed applicano questo fondamento, succede anche che il cambio modulo non è un tentativo di cambiare, ma la certezza di svoltare con una rosa che in maniera finalmente compatta volge verso l’obiettivo.
Se Pioli mostra abilità vincenti nel leggere la partita, è anche perché i sostituti ora rispondono all’appello con convinzione: come Eder, per la seconda volta entrato in partita in maniera concreta ed efficace, ora un po’ più somigliante al bel giocatore da cui Conte aveva avuto il massimo all’Europeo.

Nonostante l’appannamento di forma del binario destro, con Candreva ancora lontano dai livelli su cui ci eravamo lasciati nel 2016, si scopre anche un Perisic formato deluxe: sono 11 i punti che hanno portato i suoi gol, di cui 8 incamerati nell’ultimo quarto d’ora.
Si sente ancora dire troppo poco che l’esterno croato, numeri alla mano, è uno dei giocatori più decisivi del campionato.
Il suo gol della provvidenza nasce da un recupero di Icardi che si incaponisce su un pallone tra piedi clivensi e torna nella posizione di Ansaldi per andarlo a riprendere e innescare una nuova azione: intensità e sacrificio da Capitano, non la prima volta che si vede, che non viene meno neanche dopo aver segnato un gol che a San Siro non si vedeva dai tempi di Hernan Crespo.

“Senti, nell’aria c’è profumo di vittoria”.
E’ il profumo della Pioli N° 5.
E se l’Inter è in grado di replicarla, la sentiremo ancora molte volte.

lunedì 9 gennaio 2017

Orgoglio e pregiudizio


Si fa presto a dire filotto.
La vittoria di Udine può risultare immeritata, per usare l'aggettivo con cui qualche sedicente giornalista ha etichettato un risultato che altrove sarebbe stata senza ombra di dubbio una "vittoria di carattere", ma innesta la quarta ad un'Inter che ha iniziato a correre in classifica nonostante i disastri di inizio stagione.
Numeri alla mano, si gira il campionato a 5 punti da un obiettivo che sembrava lontanissimo solo un mese fa e con "soli" 6 punti meno del celebrato girone di andata 2015-16; due mesi corredati da passaggi a vuoto, ma anche da vittorie su campi diventati scorbutici negli ultimi anni (Sassuolo) e su campi che antipatici lo sono sempre stati (Udine).
Due mesi che hanno portato 19 punti in 8 partite tra intermezzo di Vecchi e gestione di Pioli; 2.37 punti a partita, un dato che avreste già assimilato se le famose tabelle media punti degli allenatori dell'Inter fossero ancora di moda.
Ma si sa: quando i risultati girano nessuno sente la necessità di sottolinearlo, quando l'inerzia dei numeri si fa incontrovertibile si inizia ad entrare nell'area dell'opinabile puntando il dito sul gioco che latita o sulla fortuna che prima o poi presenterà il conto.
E così le statistiche del prepartita sulla sosta indigesta per la storia dell'Inter e per la carriera di Pioli diventano materiale da archivio in un armadio che spalancherà di nuovo le ante quando l'Inter si fermerà (prima o poi succederà di certo).
Inter nos, possiamo però dirci due cose su che squadra ci ha riconsegnato un 2017 iniziato con gli scoppi di un mercato che ha reso improvvisamente Gagliardini più screditato di un'azienda insolvente e che attendeva il varco del campo.

ORGOGLIO - Sì, l'Inter ci ha messo orgoglio, impegno e voglia. In una partita così difficile, complicata da errori soprattutto collettivi e che a un certo punto sembrava facilmente potersi mettere su stabili binari friulani, reagire, rimontare e vincere non è una cosa che deve passare sotto traccia.
Non in questa stagione, non con queste premesse, non con questa Inter che in termini di composizione è la stessa dall'effetto "burro sul termosifone" di qualche mese fa.
Quella attuale di Pioli è un'Inter che non molla, non sta comoda nella sconfitta, cerca quantomeno di dominare la corrente invece che farsi spazzare via dagli eventi.
Lo fa anche con tutti i suoi limiti messi a nudo: una fase difensiva poco autorevole e tremendamente insicura, la difficoltà a trovare soluzioni convincenti di gioco se Brozovic non è in giornata da Archimede Pitagorico, la difficoltà di Icardi a farsi coinvolgere ed essere coinvolto.
Se però Murillo incappa in trenta minuti terribili per poi giocare su livelli notevoli l'ora successiva, se tutti i sostituti entrano in partita con la fame di chi il brodino non lo vuol ingerire, se lo stesso Pioli è in grado di farsi accompagnare dai suoi uomini nel cambiare il corso della partita, significa che in qualche modo la fortuna di portarsi a casa la partita te la vai a costruire.
Ieri è andata bene, magari domani andrà male; non può essere messo in dubbio che però nel calcio si vince solo se ci si prova in maniera coesa e compatta, si vince solo se la testa è orientata alla vittoria. E poco importa se al Friuli una visione obiettiva ci dice che alla fine era più giusto il pareggio, i nostri competitors nelle posizioni immediatamente dopo il vertice di partite così ne vincono a miriadi ed è perfettamente corretto che lo facciano giacché non è mai esistita, almeno in Serie A, la squadra che fa tutti i suoi punti con il braccio fuori dal finestrino, il bicchiere di Dom Perignon ed il sigaro cubano tra le le labbra.
Quando l'Inter vince soffrendo, sta interpretando benissimo il ruolo dell'Inter e chi tifa questa squadra e la conosce come le sue tasche può capire ogni sfumatura di questa affermazione.
Orgoglio, sudore, cuore e carattere sono le prime cose a cui penso se focalizzo un'Inter vincente e sono le cose che ho visto, anche se in parte, nella trasferta di Udine.

PREGIUDIZIO - Nonostante tutto, espugnare un campo così complicato in un modo così tipicamente interista non è andata giù a qualcuno.
"Latita il gioco" è una delle obiezioni più gettonate nell'enorme tribunale del post-partita. Io posso anche essere d'accordo, ma rilancio: quale squadra preparata per dare il meglio dai primi albori della primavera è in grado di volare sul terreno di gioco appena dopo la sosta? Non il Napoli, che sul suo campo ha dato vita ad una partita di rincorsa e agguantato il bottino all'ultimo giro di lancette. Non la Roma, che su un campo altrettanto complicato si è imposta soprattutto con la garra e una fase difensiva convincente. Non il Milan, che ha capitalizzato tardi le soluzioni cercate a lungo nella partita. Non la Lazio, che ha perfino rischiato di cedere il passo al modesto Crotone prima di trovare il colpo partita.
Il campionato è fatto di fasi, di strappi, di strategie, di soluzioni e nell'immediato giro post natalizio non è reato per nessuno vincere di sciabola anziché di fioretto.
Parlando di chi ha sciabolato spropositi fuori tempo e fuori luogo, mi viene subito in mente il trattamento riservato a Perisic nei suoi primi sei mesi italiani: tra chi lo candidava al bidone d'oro, chi organizzava messe di suffragio per il desaparecido Shaqiri, chi faceva i conti in tasca a Thohir, c'era solo da scegliere la stroncatura peggiore.
Risultato? Perisic è stato il migliore dello scorso girone di ritorno, ha scintillato all'Europeo finché la sua Croazia è stata in gioco, ha portato otto punti all'Inter anche senza brillare nella prima metà del campionato in corso.
Non sembra affatto il ritratto di qualcosa che secondo alcuni tratti di penna avrebbe trovato la sua collocazione in un centro di compostaggio.
Visionarie soluzioni di smaltimento rifiuti su un noto quotidiano nazionale
Per quanto riguarda invece Kondogbia, la sua sistematica distruzione è sempre più un' "inside job": è la tifoseria stessa a massacrare il francese dicendo le stesse cose pregiudizievoli del prepartita anche dopo i 90 minuti del campo.
In giro ne ho lette di ogni tra ieri e oggi: lento (è stato il terzo più veloce in corsa tra tutti i giocatori in campo), un insulto a chi non è arrivato tra i professionisti, una sciagura, un pianto, un disastro, un malus continuo.
Frasi preconfezionate che sentiremo ancora ed ancora perché se da una parte è vero che il background non idilliaco ha il suo peso, dall'altra è più semplice mettere l'etichetta su un proprio giocatore per evitare di sforzarsi ad analizzare la singola partita o chissà, nemmeno guardarla.
Ad un occhio scevro da facili massificazioni del pallone, Kondogbia è apparso nettamente il migliore (o il meno peggio) del primo tempo per poi andare lentamente a calare nel momento in cui l'Udinese aveva già abbassato il ritmo da un pezzo e fare infine spazio ad Eder per tentare di colpire i friulani con la vivacità (cosa riuscita, visto che è l'oriundo ex Samp a guadagnarsi la punizione che porterà al gol partita).
In mezzo a tutto questo, più palloni recuperati di tutti (undici) e molte meno palle perse dei suoi compagni di reparto. Nel centrocampo dell'Udinese aspettavano tutti Fofana, l'uomo rivelazione della squadra di Del Neri, ed è invece venuto fuori di prepotenza Jankto: in pochi hanno evidenziato che la zona del quasi invisibile francesino friulano era presidiata dal 7 nerazzurro, mentre Jankto ha fatto ciò che ha voluto in un binario destro nerazzurro che, orfano della forma di Candreva, ha fatto acqua da tutte le parti.
Basta incolpare Kondogbia, in fondo.

Il campioncino Fofana contro la sciagura Kondogbia: indovinate chi ha vinto?

L'ultima parte di questa fiera del pregiudizio è dedicata a Stevan Jovetic, uno a cui è stato permesso di indossare il numero di maglia transitato sulle spalle di gente come Matthaeus, Baggio, Ronaldo, Sneijder.
Uno che ha giochicchiato i primi due mesi della stagione 2015-16, ha pensato che bastasse ed ha tirato i remi in barca, per poi dire di non aver mai avuto occasioni nonostante il suo irreprensibile comportamento da professionista.
Uno che potrebbe aver cambiato in negativo la storia della scorsa Coppa Italia permettendosi di perdersi in un colpo di tacco davanti alla porta sulla situazione di 0-3 allo Juventus Stadium. Uno che si è intestardito sullo stesso dribbling per mesi e non ha mai capito o voluto capire che se non hai tra le tue soluzioni il passare la palla al compagno, non sei tagliato per stare all'interno di una squadra.
Uno che si è permesso di dire per interposta persona che all'Inter la squadra la fanno i giocatori e che lui è il povero escluso della vicenda, uno che non è riuscito a giocare con tre allenatori diversi.
Uno così, che si permette di mettersi davanti all'Inter.
Ecco, caro Jovetic: vada serenamente dove crede e, se accetta un consiglio, ci vada con uno spessore ed un atteggiamento molto diverso perchè se oggi l'Inter gira e gira benissimo anche senza di lei, probabilmente è il caso di farsi un paio di domande su ciò che lei ha dato all'Inter prima di analizzare il verso contrario della cosa.
E questo a pensarci bene non è un pregiudizio, ma un monito ben preciso: se dell'Inter non te ne frega niente, non puoi stare in questa squadra.
Questa squadra tormentata, limitata, incompiuta, ma che se vuole sa essere orgogliosa, determinata, consistente e responsabile.
Una squadra che sta imparando finalmente a mettere l'orgoglio davanti al pregiudizio.