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mercoledì 25 ottobre 2017

Destini forti



Aspettavamo tutti al varco di ottobre, tutti: curiosi, scettici, ottimisti, pessimisti, gufi e innamorati. Aspettavamo là appostati, chi pronto a fare il cordone d'onore, chi roteando la mazza chiodata che aveva armato in estate.
Bene, la parte più calda di ottobre l'abbiamo passata ed è tempo di primi responsi: l'Inter è cresciuta quando era più importante farlo. Se con Crotone, Genoa e Benevento è bastato il minimo sindacale della maggiore quota tecnica, negli ultimi dieci giorni si doveva iniziare ad entrare in gioco da duri. Non bastassero i sette punti su nove nel primo trappolone offerto dal calendario, l'Inter ha interpretato i tre esami ravvicinati in maniera variegata ed efficace: nel derby ha vinto di cuore, andando oltre i limiti palesati dall'aver concesso per due volte il pareggio al Milan; a Napoli ha pareggiato con il carattere e da squadra (anzi, diciamola bene: ha giocato con i coglioni ben esposti); contro la Sampdoria ieri sera l'Inter aveva deciso di esagerare, stravincendo e dando spettacolo, ma non si è fatta benissimo i conti sulla gestione delle energie ed è uscita dalla partita in anticipo. La prestazione dei primi 65 minuti rimane ed è la migliore, in termini di proposta di squadra, degli ultimi 4-5 anni (in coabitazione con il purtroppo inutile 3-0 rifilato alla Juventus in Coppa Italia nel marzo 2016).

Il crescendo rossiniano messo in scena in questo scorcio di autunno non è casuale, non è estemporaneo e non è umorale: è semplicemente quella rivoluzionaria idea che qualcuno di noi enunciava nel precampionato, mentre altri si dilaniavano con le marchette di un mercato che non portava i pacchetti di figurine da scartare ed incollare in una rosa che doveva diventare un album da collezione.
L'idea del cambio di filosofia: piedi buoni, calcio propositivo ed atteggiamento sistemico. 
La quantità di pomodori che sono stati tirati a chi parlava di un mercato logico, in cui l'allenatore tornava filo conduttore dopo aver speso a casaccio un anno prima, oggi potrebbe sfamare buona parte del terzo mondo.
Eppure non era affatto impronosticabile, andando oltre la logica dell'individuo per molto tempo unica guida dell'estate interista: gli acquisti fatti avevano in comune la caratteristica di arrivare da sistemi di gioco dinamici e propositivi, soprattutto Vecino era riuscito ad emergere nel declamato Empoli di Sarri e nella prima Fiorentina di Sousa che spaventò il campionato prima di avvitarsi sui suoi limiti tecnici.
Ovvio, prima di vedere concretizzata almeno l'idea che girava nella testa del tecnico lo scetticismo c'era in tutti: "l'Inter non ha nel DNA il gioco propositivo, lo sacrifica per la solidità". Regole scritte apposta per essere sovvertite.
Prendere a campione il terzo gol segnato alla Sampdoria: sviluppo in tutta la verticalità del campo, 7 giocatori coinvolti, 11 passaggi e mai un tocco avversario nel mezzo. Uno sviluppo provato anche nel precampionato snobbato dai più, la prova tangibile che almeno nelle intenzioni di allora il vento cambiato stava spirando come una brezza piacevole, senza minacciare tempesta.

Lui è l'artefice di questo avvio eccellente nei risultati e sempre più convincente nelle dinamiche di gioco: Luciano Spalletti è un altro arrivato defilato, all'ombra degli affascinanti e roboanti nomi spesi per la panchina. Uno che di credito ne ha avuto poco, talmente poco che ancora a fine agosto gran parte della tifoseria social riteneva immutato il gap dalla Roma collezionato nel 2016/17, nonostante lo spostamento del tecnico.
Con grande intelligenza, Spalletti ha capito subito il primo grande problema del pianeta Inter: aver collezionato troppe mezze figure tra gli allenatori passati nell'ultimo lustro, con la lacuna di un leader che sapesse coniugare il carisma e la tattica, la comunicazione e l'atteggiamento, la responsabilità e l'appartenenza.
Si è liberato dei giocatori di piede ineducato e si è preso la responsabilità di mettere la firma sull'acquisto di Borja Valero spendendosi personalmente in un "vi farà divertire". 
Ha parlato di interismo e di derivate responsabilità fin dalla sua presentazione, ha messo sotto torchio il gruppo che fallì la scorsa stagione pretendendo risposte concrete e immediate. 
Ha approcciato bene un immediato avvio di campionato che al sorteggio dei calendari scatenò previsioni apocalittiche, non si è fatto problemi a mettere la solidità davanti alla fluidità di gioco quando le gambe giravano poco.
Ha tenuto il profilo basso e concentrato nella lunga attesa del derby mentre dall'altra parte si proclamava, si declamava, si esclamava, si rumoreggiava: il jackpot se lo è portato a casa lui assieme a tutti coloro che ne hanno goduto.
Ha considerato il derby, pur non giocato alla perfezione, come un punto di partenza ed è andato a Napoli a giocarsela palla a terra con personalità, collettivo e cazzimma: come a dire, il Napoli sarà la squadra più bella d'Europa, ma noi siamo l'Inter e andiamo a farci rispettare anche da loro. Giocando corto, con la squadra raccolta in non più di 20-25 metri quando il possesso ce l'avevano i partenopei (quindi, per anatomia, molto spesso) a circondare l'avversario muovendosi all'unisono come fosse una coreografia scenica. Coinvolgendo tutti. 
Stesso atteggiamento replicato con la Sampdoria, con la differenza di dover unire anche una fase offensiva coinvolgente ed efficace. Con la fame, la stessa fame di 54mila e passa anime popolanti San Siro in infrasettimanale, di chi ha mangiato pane duro e cipolla per troppo tempo ed assalta un buffet imbandito di leccornie.

Coinvolgente la manovra, coinvolti i giocatori. 
Coinvolto D'Ambrosio, che non ha mezzi tecnici scintillanti ma l'attitudine di un marine; stesso dicasi per Nagatomo dall'altra parte, con il plus di saper fare cose belle e utili quando si trova in fiducia. 
Coinvolto Candreva, arresosi al serbatoio vuoto non prima di aver giocato due partite e mezza di altissimo livello.
Coinvolto Perisic, nell'assediare il Doria per un'ora e nel passare a difendere l'assedio improvviso degli ospiti negli ultimi 30 minuti. Lì a fare il terzino chiudendo dove e quando serviva davvero e stiamo parlando dello stesso uomo che poco più di tre mesi fa si allontanava dalle foto di gruppo e guardava dall'altra parte, da lupo solitario.
Coinvolto Icardi, che segna un gol bellissimo e chiude un'azione meravigliosa per poi andare ai microfoni del post partita a dire che così non va, che non si può rischiare la buccia dopo essersi vestiti da jaggernauts per un'ora abbondante, che ci sono cose che vanno evitate sia da parte sua che da parte della squadra. Lì a fare il cazziatone ai compagni dopo aver giocato per più di metà partita un calcio vincente e convincente, prima che arrivi Spalletti a rompere le righe ricordando a tutti che, va bene l'autocritica, ma i tre punti sono ancora in saccoccia. E stiamo parlando, nel caso del 9 nerazzurro, dello stesso uomo a cui tre mesi fa sarebbe stata tolta la fascia da capitano per plebiscito. 

Si fa presto a dire Scudetto ma no, è una trappola messa a nudo dagli ultimi venti minuti di Inter-Sampdoria: se da un lato Spalletti ha trovato la quadra dell'undici, per tre volte schierato uguale e per tre volte convincente, dall'altro lato c'è una panchina che ad oggi non ha nemmeno una forma ed un volume.
Riavvolgendo il nastro dei vari subentrati, pare che il solo Eder abbia capito quale tipologia di atteggiamento va tenuto in questo gruppo. Non l'ha capito sicuramente Joao Mario, ieri vaso di coccio in mezzo a piloni di cemento armato: c'è chi dopo oltre un anno non ha ancora capito che ruolo ha il portoghese e che peculiarità tecniche abbia ed è francamente difficile biasimare chi ha queste posizioni.
Discorso diverso per Brozovic, la cui indiscutibile tecnica al servizio del gruppo diventerebbe arma lussuosa e scintillante, ma che non sappiamo ancora se sarà in grado di mediare con una capoccia selvaggia e distorta come un segnale radio che salta all'improvviso.
Il resto è una rassegna di tirocinanti (Dalbert e Cancelo), liceali sopra la media (Karamoh) e scarti di lavorazione degli ultimi tragici anni (Ranocchia e Santon).

Non solo la coperta corta, c'è anche la maturità della grande squadra ancora da completare.
Philippe Petit, l'equilibrista che nel 1974 camminò per quasi un'ora su un cavo d'acciaio sospeso tra le defunte Twin Towers a oltre 400 metri d'altezza, diceva che nel suo mestiere c'erano tre passi decisivi: gli ultimi. I tre passi tra il vuoto e la meta, i tre passi che ti tradiscono se pensi di avercela fatta prima di compierli. 
Lo Scudetto è esattamente come la traversata delle Twin Towers: ci vuole concentrazione, gestione dell'equilibrio, forza, consapevolezza, dominio degli elementi e degli spazi. Non bastano nemmeno tutti i passi fatti bene, se mancano gli ultimi tre si cade e non c'è ritorno.
L'Inter no, questi passi non li può ancora fare ma non ha l'ossessione di doverli fare: anche forzare un equilibrio così sottile prima del suo naturale compimento è una mossa potenzialmente fatale.

Spalletti sta costruendo, instillando e trasmettendo la mentalità della grande squadra che deve essere tanto consapevole della propria forza quanto conscia dei propri oggettivi limiti: è un viaggio lungo e travagliato.
Ognuno col proprio viaggio, ognuno col proprio destino: gli uomini di questa squadra, per come si presenta oggi, hanno ritrovato i presupposti per unire i propri destini forti.
Prima della meta godiamoci il viaggio.
Non c'è altra strada.

lunedì 16 ottobre 2017

Black&Blue Monday



Il Blue Monday, per i paesi anglosassoni, è comunemente noto come il peggior lunedì dell'anno, il più deprimente: cade a gennaio ed è stato calcolato sia così tremendo per il meteo nemico, la lontananza percepibile dal Natale, la situazione economica non florida e la pressione che consegue dall'inseguire gli obiettivi che tipicamente ci si pone all'inizio dell'anno nuovo. 
Il Black&Blue Monday, invece, è una cosa diversa: è il lunedì godereccio e vivace della Milano nerazzurra che occupa il suo spazio di routine con l'umore frizzantino e l'adrenalina ancora in circolo.
Il lunedì del tifoso nerazzurro che affronta il mondo esterno con una mano a cercare spesso la tasca dei pantaloni per sentire il derby messo in saccoccia e trarne da esso il beneficio di un talismano dall'energia magica.

Non fai fatica a riconoscerci, se ci guardi bene.
Siamo quelli le cui occhiaie tradiscono le ore piccole della notte prima, abbracciate andando a nutrirsi di qualsiasi cosa rimandi alla vittoria: rassegne stampa, pagelle, articoli di siti specializzati interisti e di rimando quelli specializzati milanisti per cogliere il disappunto di chi invece è atteso da un lunedì molto nero e poco rosso.
E poi ancora: tutte le sintesi possibili, di qualsiasi partito e in qualsiasi lingua, abusando di Youtube, oppure tenere la TV accesa per vedere la replica e capire se vinciamo anche in seconda visione. Sì, vinciamo sempre e la sensazione è sempre bella.
Prendi la metropolitana e nel gioco di sguardi un po' assopiti e un po' curiosi del vagone stipato nel silenzio rotto dallo strepitare del treno sulle rotaie, ti accorgi di quei piccoli particolari che ti svoltano la giornata: chi ha goduto e gode ancora espone un vessillo anche poco invasivo, ma molto incisivo e magari ha in mano la Gazzetta a cui dà la sbirciata galeotta per ricordarsi che è un lunedì dolce e che tutto ciò che vorrebbe fare in quel vagone è esporre la maglia a tutti come l'Icardi immortalato sulla prima pagina.

Pensi a che giornata avrai e ti rendi conto che dovrai prenderti quei 3-4 minuti per rivederti gli highlights: la prima volta per concentrarsi sui gol, la seconda volta per cogliere il boato di San Siro che come vento solare sembra spostare i campi magnetici del pianeta, la terza volta per ubriacarti della gioia che hai provato in quei novanta minuti cristallizzati nella tua memoria. Magari una quarta, una quinta, una sesta volta per risentire le migliori reazioni di chi sta al commento, da uno schieramento e dall'altro.
Prendiamocela mezz'oretta per rivedere il derby, che non ci capita tutti i lunedì.
Mentre cammini in mezzo alla quotidianità di chi sta intorno, cogli le conversazioni altrui e ti verrebbe voglia di inserirti nel mezzo di ogni argomento, che sia lavoro, scuola, famiglia o politica solo per il gusto di dire: "Va bene tutto, ma parliamo un attimo di quanto è forte Skriniar?" e se non vieni assecondato sogni di dare la spallata prepotente ed autoritaria che lo slovacco ha riservato ad André Silva, solo per il gusto di esaltarti emulandolo.
Nella giornata che si sviluppa nello spazio comune, hai l'irresistibile impulso ad inserirti all'interno di ogni gruppetto che accenna minimamente ad un interscambio basato su un pallone che rotola: con nonchalance, fai finta di trovarti lì per caso e al momento giusto intervieni piazzando la fulminea ed inarrestabile zampata alla Maurito che ti fa andar via trionfante.
Tutto ti parla di Inter e vuoi partecipare, instancabile come Vecino, fino a fine giornata: ritrovi qualche istinto rabbioso quando ti capita un contrattempo, una rogna sul lavoro, un malinteso con la moglie e subito la tua mente vola a quel pallone perso da Gagliardini a tempo scaduto che ti ha scatenato i peggio istinti dei predatori che cacciano nella Savana senza alcuna pietà.

Con il rischio di farne una questione di principio che ci distoglierà dalle teoriche priorità del lunedì non festivo, non disdegniamo di marcare il territorio Social con il ghigno della conquista perchè, diciamocelo pure: la speranza di uscire da quel girone dantesco dell'estate 2017 col riscatto sul campo nel derby ce l'avevamo in canna da almeno tre mesi.
La voglia di dare un potente colpo di badile alle litanìe del precampionato, all'assedio medievale dei cuginastri, al loro profilo troppo sfacciato della vigilia faceva di questo derby una rivincita morale che andava perfino oltre le già sature motivazioni emotive di un match come questo.
Vincere così, con un rigore al 90'.
Vincere così, con un Bonucci a tratti alleato.
Vincere così, con quel Rodriguez soffiato sotto il naso che cade nella fesseria più colossale da compiere a tempo scaduto.
Vincere così e sentire gli altri passare da "cose formali" a "Così fa male".
Vincere e avere tre partite di vantaggio a metà ottobre.
Non avreste desiderato nulla di meglio, a un certo punto dell'anno.

Le analisi tattiche, i difetti portati in luce dal calcio giocato (più di uno), la probabilità di schiantarsi a Napoli sabato, la rosa corta, il derby che a un certo punto si poteva anche perdere sono concetti che si potrebbero anche portare alla luce, ma non caricatemi di questa incombenza. Non oggi. Non nel mio, nel nostro Black&Blue Monday.
Oggi voglio sentirmi come un turista in un museo paralizzato davanti all'incorniciata istantanea di Icardi che trapassa quel muro di schiamazzi e risa udite per molto più tempo di quanto si poteva sopportare.
Cala il silenzio insito nell'ammirazione, si staglia un sorriso carico di emozione e tutto il resto si alleggerisce, come etereo.

Perchè domani forse è un altro giorno e si vedrà.
Ma oggi è oggi.
Ed essere interista, oggi, è qualcosa di bellissimo.


lunedì 2 ottobre 2017

Vogliamo le scuse




L'Inter che gioca male.
L'Inter che non merita di affermarsi.
L'Inter che si deve vergognare perché beneficia del VAR, come se le regole fossero un privilegio a cui rinunciare.
L'Inter che ha il calendario troppo facile, i glutei troppo gonfi, la rosa troppo corta, i giocatori troppo umorali, il centravanti che se fa i gol è reo di dimenticarsi della squadra e se fa qualcosa per la squadra è reo di dimenticarsi di segnare.
L'Inter che ha 19 punti e deve scusarsene.

Vogliamo le scuse, Inter: vogliamo le scuse di Spalletti perchè se non batti il Benevento 6-0 non vali un piffero, ma d'altronde se lo batti 6-0 sei capace di fare goleade solo con le squadre già condannate a retrocedere.
Vogliamo le scuse di Brozovic, perché la doppietta da tre punti non conta nulla se la fai a Benevento, a Benevento segnano anche Pierre Wome e Sixto Peralta: non facciamoci impressionare.
Vogliamo dire con convinzione che l'Inter vince a Roma per caso e per culo, ma anche essere impressionati dalla Roma che vince a San Siro creando la metà di quanto abbiano fatto gli avversari: conta il risultato, no?

Vogliamo essere esteti quando la squadra è risultatista, ma sentirci liberi di dire sticazzi all'estetica del Napoli perchè alla fine conta chi vince.
Vogliamo stare nella nostra comfort zone in cui inveire sul fatto che Nagatomo e Candreva facciano espletare funzioni fisiologiche benché abbiano giocato bene a Benevento: a Benevento giocano bene anche Alvaro Pereira e Diego Forlàn, non scherziamo.
Vogliamo poter convincere argomentando che l'Inter non può andare oltre il sesto posto, ma anche reputare una sconfitta morale non stravincere contro chiunque stia sotto le posizioni europee: in altre parole, vogliamo il passo Scudetto come minimo sindacale con una squadra che abbiamo dichiarato essere da Europa League col fiatone.

Vogliamo poter tirare le pietre alla dirigenza perchè cambiando allenatore ogni sei mesi non avrai mai un progetto, ma anche dire a un allenatore in carica da quattro mesi che il gioco è uguale agli ultimi sei anni.
Vogliamo la mentalità della prima Juve di Conte, che nelle prime sette giornate aveva fatto 13 punti facendo 9 gol e subendone tre: avere sei punti e cinque gol fatti in più sono dettagli trascurabilmente casuali, nella classifica della mentalità.
Vogliamo poter asserire che i gol di Icardi vanno pesati a seconda del valore dell'avversario, ma anche aprire il caso Icardi se timbra con Fiorentina e Roma e resta a secco con Crotone e Benevento.

Vogliamo una squadra che ci faccia esultare, ma anche stare alla finestra in attesa della prima sconfitta per premere il pulsante del "l'avevo detto io" prima di tutti gli altri.
Vogliamo poterci affezionare all'aggettivo "mediocre" e provare quello strano senso di ebbrezza ed appagamento che ci dà abusarne, anche se fuori tempo e fuori luogo, anche se il suono diventa più importante del significato.
Vogliamo fare la rivoluzione estiva sul mercato per poter gonfiare la sacca scrotale, per pretendere poi le garanzie e le sicurezze di una squadra collaudata e che si trova a memoria.
Vogliamo una Società trasparente che ci dica come stanno le cose: il tifoso ha il diritto di sapere. Vogliamo poi puntare il dito su Ausilio se ci dice cose realisticamente deprimenti: il tifoso ha il diritto di sognare.
Vogliamo i centrocampisti posizionali del Napoli, gli attaccanti di manovra della Roma, il mercato del Milan, il fatturato della Juve; vogliamo definire Skriniar una turca e paragonarlo una settimana dopo a Samuel, vogliamo lo spettacolo e il risultato, lo yin e lo yang, la botte piena e la moglie ubriaca, l'orgoglio e il pregiudizio, il delitto e il castigo, l'uno, il nessuno, il centomila; vogliamo consumare le partite come uno smartphone, abusarne per arrivare poi a dire che c'è di meglio in commercio, che il telefono fa schifo se telefona ma non fa le foto a 400 megapixel, che non vale niente se le sue prestazioni misteriosamente fanno calare la batteria.

Vogliamo buttare via una squadra se ha problemi da risolvere e fare sfoggio di ricchezza e benessere prendendone una nuova in blocco, vogliamo vomitare rabbia contro i media faziosi per poi pendere dalle loro labbra ogni qualvolta mettono in circolazione una notizia denigrante.
Vogliamo sensazionalizzare sui ragazzini con la mano sinistra e spendere per i campioni con la mano destra.
Quando stiamo meglio vogliamo stare peggio perchè stare meglio è chiaramente la fase antecedente allo stare peggio; quando stiamo peggio vogliamo stare meglio perchè stare peggio è chiaramente la fase antecedente allo stare meglio. 
Vogliamo avere un rapporto sessuale solo per svegliarci la mattina dopo e constatare che è stata una cosa di una notte e mai più. 

Vogliamo tante cose, ma non vogliamo 19 punti su 21: non sono divertenti, non sono avvolgenti, non sono confortevoli, sanno troppo di realtà e poco di sogni, sono troppo veri e poco verosimili.
Vogliamo le scuse, Inter: questi 19 punti parecchi di noi non li meritavano.