Aspettavamo tutti al varco di ottobre, tutti: curiosi, scettici, ottimisti, pessimisti, gufi e innamorati. Aspettavamo là appostati, chi pronto a fare il cordone d'onore, chi roteando la mazza chiodata che aveva armato in estate.
Bene, la parte più calda di ottobre l'abbiamo passata ed è tempo di primi responsi: l'Inter è cresciuta quando era più importante farlo. Se con Crotone, Genoa e Benevento è bastato il minimo sindacale della maggiore quota tecnica, negli ultimi dieci giorni si doveva iniziare ad entrare in gioco da duri. Non bastassero i sette punti su nove nel primo trappolone offerto dal calendario, l'Inter ha interpretato i tre esami ravvicinati in maniera variegata ed efficace: nel derby ha vinto di cuore, andando oltre i limiti palesati dall'aver concesso per due volte il pareggio al Milan; a Napoli ha pareggiato con il carattere e da squadra (anzi, diciamola bene: ha giocato con i coglioni ben esposti); contro la Sampdoria ieri sera l'Inter aveva deciso di esagerare, stravincendo e dando spettacolo, ma non si è fatta benissimo i conti sulla gestione delle energie ed è uscita dalla partita in anticipo. La prestazione dei primi 65 minuti rimane ed è la migliore, in termini di proposta di squadra, degli ultimi 4-5 anni (in coabitazione con il purtroppo inutile 3-0 rifilato alla Juventus in Coppa Italia nel marzo 2016).
Il crescendo rossiniano messo in scena in questo scorcio di autunno non è casuale, non è estemporaneo e non è umorale: è semplicemente quella rivoluzionaria idea che qualcuno di noi enunciava nel precampionato, mentre altri si dilaniavano con le marchette di un mercato che non portava i pacchetti di figurine da scartare ed incollare in una rosa che doveva diventare un album da collezione.
L'idea del cambio di filosofia: piedi buoni, calcio propositivo ed atteggiamento sistemico.
La quantità di pomodori che sono stati tirati a chi parlava di un mercato logico, in cui l'allenatore tornava filo conduttore dopo aver speso a casaccio un anno prima, oggi potrebbe sfamare buona parte del terzo mondo.
Eppure non era affatto impronosticabile, andando oltre la logica dell'individuo per molto tempo unica guida dell'estate interista: gli acquisti fatti avevano in comune la caratteristica di arrivare da sistemi di gioco dinamici e propositivi, soprattutto Vecino era riuscito ad emergere nel declamato Empoli di Sarri e nella prima Fiorentina di Sousa che spaventò il campionato prima di avvitarsi sui suoi limiti tecnici.
Ovvio, prima di vedere concretizzata almeno l'idea che girava nella testa del tecnico lo scetticismo c'era in tutti: "l'Inter non ha nel DNA il gioco propositivo, lo sacrifica per la solidità". Regole scritte apposta per essere sovvertite.
Prendere a campione il terzo gol segnato alla Sampdoria: sviluppo in tutta la verticalità del campo, 7 giocatori coinvolti, 11 passaggi e mai un tocco avversario nel mezzo. Uno sviluppo provato anche nel precampionato snobbato dai più, la prova tangibile che almeno nelle intenzioni di allora il vento cambiato stava spirando come una brezza piacevole, senza minacciare tempesta.
Lui è l'artefice di questo avvio eccellente nei risultati e sempre più convincente nelle dinamiche di gioco: Luciano Spalletti è un altro arrivato defilato, all'ombra degli affascinanti e roboanti nomi spesi per la panchina. Uno che di credito ne ha avuto poco, talmente poco che ancora a fine agosto gran parte della tifoseria social riteneva immutato il gap dalla Roma collezionato nel 2016/17, nonostante lo spostamento del tecnico.
Con grande intelligenza, Spalletti ha capito subito il primo grande problema del pianeta Inter: aver collezionato troppe mezze figure tra gli allenatori passati nell'ultimo lustro, con la lacuna di un leader che sapesse coniugare il carisma e la tattica, la comunicazione e l'atteggiamento, la responsabilità e l'appartenenza.
Si è liberato dei giocatori di piede ineducato e si è preso la responsabilità di mettere la firma sull'acquisto di Borja Valero spendendosi personalmente in un "vi farà divertire".
Ha parlato di interismo e di derivate responsabilità fin dalla sua presentazione, ha messo sotto torchio il gruppo che fallì la scorsa stagione pretendendo risposte concrete e immediate.
Ha approcciato bene un immediato avvio di campionato che al sorteggio dei calendari scatenò previsioni apocalittiche, non si è fatto problemi a mettere la solidità davanti alla fluidità di gioco quando le gambe giravano poco.
Ha tenuto il profilo basso e concentrato nella lunga attesa del derby mentre dall'altra parte si proclamava, si declamava, si esclamava, si rumoreggiava: il jackpot se lo è portato a casa lui assieme a tutti coloro che ne hanno goduto.
Ha considerato il derby, pur non giocato alla perfezione, come un punto di partenza ed è andato a Napoli a giocarsela palla a terra con personalità, collettivo e cazzimma: come a dire, il Napoli sarà la squadra più bella d'Europa, ma noi siamo l'Inter e andiamo a farci rispettare anche da loro. Giocando corto, con la squadra raccolta in non più di 20-25 metri quando il possesso ce l'avevano i partenopei (quindi, per anatomia, molto spesso) a circondare l'avversario muovendosi all'unisono come fosse una coreografia scenica. Coinvolgendo tutti.
Stesso atteggiamento replicato con la Sampdoria, con la differenza di dover unire anche una fase offensiva coinvolgente ed efficace. Con la fame, la stessa fame di 54mila e passa anime popolanti San Siro in infrasettimanale, di chi ha mangiato pane duro e cipolla per troppo tempo ed assalta un buffet imbandito di leccornie.
Coinvolgente la manovra, coinvolti i giocatori.
Coinvolto D'Ambrosio, che non ha mezzi tecnici scintillanti ma l'attitudine di un marine; stesso dicasi per Nagatomo dall'altra parte, con il plus di saper fare cose belle e utili quando si trova in fiducia.
Coinvolto Candreva, arresosi al serbatoio vuoto non prima di aver giocato due partite e mezza di altissimo livello.
Coinvolto Perisic, nell'assediare il Doria per un'ora e nel passare a difendere l'assedio improvviso degli ospiti negli ultimi 30 minuti. Lì a fare il terzino chiudendo dove e quando serviva davvero e stiamo parlando dello stesso uomo che poco più di tre mesi fa si allontanava dalle foto di gruppo e guardava dall'altra parte, da lupo solitario.
Coinvolto Icardi, che segna un gol bellissimo e chiude un'azione meravigliosa per poi andare ai microfoni del post partita a dire che così non va, che non si può rischiare la buccia dopo essersi vestiti da jaggernauts per un'ora abbondante, che ci sono cose che vanno evitate sia da parte sua che da parte della squadra. Lì a fare il cazziatone ai compagni dopo aver giocato per più di metà partita un calcio vincente e convincente, prima che arrivi Spalletti a rompere le righe ricordando a tutti che, va bene l'autocritica, ma i tre punti sono ancora in saccoccia. E stiamo parlando, nel caso del 9 nerazzurro, dello stesso uomo a cui tre mesi fa sarebbe stata tolta la fascia da capitano per plebiscito.
Si fa presto a dire Scudetto ma no, è una trappola messa a nudo dagli ultimi venti minuti di Inter-Sampdoria: se da un lato Spalletti ha trovato la quadra dell'undici, per tre volte schierato uguale e per tre volte convincente, dall'altro lato c'è una panchina che ad oggi non ha nemmeno una forma ed un volume.
Riavvolgendo il nastro dei vari subentrati, pare che il solo Eder abbia capito quale tipologia di atteggiamento va tenuto in questo gruppo. Non l'ha capito sicuramente Joao Mario, ieri vaso di coccio in mezzo a piloni di cemento armato: c'è chi dopo oltre un anno non ha ancora capito che ruolo ha il portoghese e che peculiarità tecniche abbia ed è francamente difficile biasimare chi ha queste posizioni.
Discorso diverso per Brozovic, la cui indiscutibile tecnica al servizio del gruppo diventerebbe arma lussuosa e scintillante, ma che non sappiamo ancora se sarà in grado di mediare con una capoccia selvaggia e distorta come un segnale radio che salta all'improvviso.
Il resto è una rassegna di tirocinanti (Dalbert e Cancelo), liceali sopra la media (Karamoh) e scarti di lavorazione degli ultimi tragici anni (Ranocchia e Santon).
Non solo la coperta corta, c'è anche la maturità della grande squadra ancora da completare.
Philippe Petit, l'equilibrista che nel 1974 camminò per quasi un'ora su un cavo d'acciaio sospeso tra le defunte Twin Towers a oltre 400 metri d'altezza, diceva che nel suo mestiere c'erano tre passi decisivi: gli ultimi. I tre passi tra il vuoto e la meta, i tre passi che ti tradiscono se pensi di avercela fatta prima di compierli.
Lo Scudetto è esattamente come la traversata delle Twin Towers: ci vuole concentrazione, gestione dell'equilibrio, forza, consapevolezza, dominio degli elementi e degli spazi. Non bastano nemmeno tutti i passi fatti bene, se mancano gli ultimi tre si cade e non c'è ritorno.
L'Inter no, questi passi non li può ancora fare ma non ha l'ossessione di doverli fare: anche forzare un equilibrio così sottile prima del suo naturale compimento è una mossa potenzialmente fatale.
Spalletti sta costruendo, instillando e trasmettendo la mentalità della grande squadra che deve essere tanto consapevole della propria forza quanto conscia dei propri oggettivi limiti: è un viaggio lungo e travagliato.
Ognuno col proprio viaggio, ognuno col proprio destino: gli uomini di questa squadra, per come si presenta oggi, hanno ritrovato i presupposti per unire i propri destini forti.
Prima della meta godiamoci il viaggio.
Non c'è altra strada.
SONTUOSA ANALISI
RispondiEliminaBravo!
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