Cerca nel blog

lunedì 13 novembre 2017

Siamo questi



24 giugno 2010.
24 giugno 2014.
13 novembre 2017.
Tre date che si stagliano nell'arco di sette lunghi anni, tre date che apparentemente non hanno nulla in comune ma a ben vedere posseggono un enorme comune denominatore: sono le tre date in cui la nazionale italiana di calcio si è trovata sull'orlo del precipizio e si è improvvisamente ricordata di tutto ciò che non funziona.

L'Italia delle quattro stelle sul petto che non è più in grado di trovare il suo posto sulla mappa planetaria, l'Italia calcistica che ha scoperto di potersi deteriorare e di non avere alcun diritto divino da esercitare, l'Italia con addosso gli occhi del mondo che si interroga su cosa continui ad andare storto nel rapporto con la massima competizione globale dopo la gloria del 9 luglio 2006.
Quelle che seguono sono riflessioni di un osservatore che non ha alcuna velleità né pretesa, ma che si interroga su quella sensazione di loop che ha addosso da quasi un decennio e che anche ingenuamente si stupisce su come la ripetitività di certe situazioni pare faccia cadere dalle nuvole un'ingente quantità di persone che vivono, o dovrebbero vivere di pallone ogni giorno.

MEZZE FIGURE E FIGURACCE
Per rendere efficace qualunque analisi vogliamo fare, dobbiamo necessariamente partire dall'ultimo fotogramma: lo stato confusionale in cui versa Giampiero Ventura e il modo in cui è diventato il bersaglio mobile di un'intera nazione in poche settimane.
Non sono stati in pochi ad alludere o a dire apertamente che la priorità della nazionale è cambiare il Commissario Tecnico anche in caso di qualificazione al mondiale acciuffata: qui si apre un vaso di Pandora delle dimensioni del Colosseo, perché dobbiamo riflettere in primis sul motivo per il quale Ventura sia stato scelto, visto che all'epoca lo avevano capito in pochi e oggi ancora meno persone lo comprendono, forti del senno di poi.
Quando l'attuale CT ha preso in mano la nazionale si era ventilata l'ipotesi che la strada verso il mondiale fosse stata spianata dall'eredità che aveva lasciato Conte, ma la maggior parte si era accorta benissimo che era lo stesso Conte il vero valore aggiunto. La scelta di Ventura non era sembrata quindi molto diversa da quella di Prandelli, che per quanto sia riuscito in un grande exploit nel 2012, ha evidenziato nel 2014 la stessa confusione che c'è in Ventura oggi, con formazioni sbagliate e l'impressione di essere stato delegittimato dal gruppo e di poter finire in preda dell'opinione pubblica.

Prandelli e Ventura rappresentano le mezze figure che nell'occasione forse unica della vita fanno quello che possono fare senza alzare troppo la voce.
Tutt'altra musica rispetto a Conte che già nella prima conferenza da CT aveva iniziato ad evidenziare l'esigenza impellente di riforme strutturali nel movimento calcistico nazionale per poi andarsene in polemica due anni dopo dicendo con amarezza che su certe cose aveva fatto la guerra da solo.
La questione sembra piuttosto semplice e logica: se in panchina ci si mette un tecnico vincente è necessario creargli una struttura vincente altrimenti suddetto allenatore alza i tacchi e toglie il disturbo.
La scelta di allenatori che sembrano inadeguati per il ruolo fin dall'inizio potrebbe allora celare la precisa volontà da parte della Federazione di inserire mezze figure che non hanno il carisma ed il background professionale per imporre determinate migliorie che nessuno vuole davvero effettuare e che saranno ben contenti di lavorare con il discreto materiale che si ritroveranno; allo stesso tempo possono diventare facili capri espiatori su cui deviare l'ovvio e grave problema strutturale che esiste in tutti i livelli del nostro calcio.
Con la sola controindicazione che in una nazionale come quella italiana le mezze figure portano quasi sempre alle figuracce ed alla ripetitività dei dibattiti che poi restano sempre estemporanei e fini a loro stessi.

GERONTOCRAZIA

La precedente riflessione potrebbe essere collegata ad un altro punto da evidenziare: l'Italia è una nazionale gerontocratica, senza girarci troppo attorno.
Analizzando l'11 sceso in campo a Solna venerdì sera ci accorgiamo che 6/11 erano in campo nell'esordio del disastroso mondiale 2014, 4/11 furono titolari nell'esordio di Euro2012, 3/11 furono scelti da Lippi per la prima partita del fallimentare mondiale sudafricano ed addirittura 2/11 partirono dall'inizio ad Hannover nella prima partita del trionfale mondiale 2006 (con il terzo, Barzagli, che faceva parte della spedizione).
Non si tratta solo di mancanza conclamata di ricambi, ma anche di aver eletto dei senatori a vita: una scelta che non permette di responsabilizzare giocatori al di fuori di questa cerchia, che vengono trattati come stagisti nel momento in cui sono in piena maturità calcistica.
Emblematico l'esempio di Verratti: ancora a fine 2015 ci si chiedeva se era il caso di responsabilizzare un giocatore di 23 anni, che era titolare in una delle squadre più attrezzate d'Europa da quasi un biennio.
L'Italia che ha giocato in Svezia con 6 giocatori nati negli anni '80 è la radice del problema: oltre alla freschezza atletica che inevitabilmente viene a mancare, resta l'impressione di un gruppo in apparente autogestione che non ha più la fame e le motivazioni dei propri anni migliori.
Delle due l'una: o Ventura si affida a loro per avere un paravento di esperienza in caso le cose andassero male o ha le mani legate in questo senso.
Comunque la vogliate mettere, guardiamo altrove e ci accorgiamo che le stelle già consacrate o in procinto di esserlo nelle altre nazionali creano un solco di età che inizia ad essere imbarazzante: Gabriel Jesus (Brasile 1997), Asensio (Spagna 1996), Alli (Inghilterra 1996), Mbappe (Francia 1998), Werner (Germania 1996) sono già annoverati tra i migliori giocatori del mondo e con un'età media di 20,4 anni oggi si potrebbero teoricamente trovare ad affrontare una difesa azzurra la cui media anni è di 34,5.
Non credo si possa provocare più alcuno scandalo se si afferma con convinzione che tale situazione non è più accettabile.


BAN DEGLI STRANIERI: LA TOPPA PEGGIO DEL BUCO
In mezzo alle voci di protesta urbi et orbi, torna sempre il solito refrain dei troppi stranieri e dello stop che andrebbe imposto immediatamente sulla scia di quanto fatto nel 1966.
Senza dover stare a dire perchè il calcio del 2017 non ha nulla a che fare con quello del 1966, nel dare il proprio beneplacito a tale provvedimento non si fa altro che strizzare l'occhio ad una federazione che da anni naviga consapevolmente sulla superficie dei problemi senza mai azzardarsi nemmeno a quantificare tutta la spazzatura che ne popola il fondale.
Porre il divieto agli stranieri oggi sarebbe il colpo di grazia inferto ad una Serie A già agonizzante, che dovrebbe diventare autarchica proprio nel momento in cui si è trovata costretta ad attirare visibilità e capitali stranieri per tentare di non finire in coma vegetativo irreversibile causato dall'incapacità di tenere il passo con i tempi da parte della classe dirigente che del calcio italiano muove i fili.
Eppure questa litanìa che continua a ripetersi ogni qualvolta la Nazionale compie un lungo passo nel vuoto non trova un coerente riscontro nel momento in cui il maggior interesse nazionalpopolare è il campionato: dovremmo tutti ricordarci come fino a due-tre anni fa uno dei problemi sollevati fosse lo scarso appeal che non attirava i campioni dall'estero.
Perché banalmente la verità è questa: i giocatori forti in questo momento albergano oltre confine e lo hanno ben capito le prime cinque del nostro campionato che settimanalmente mandano in campo un 11 che non va mai sotto il 70% di giocatori stranieri, senza che nessuno si affanni a dire che in ottica Nazionale la situazione risulti inquietante tanto quanto lo risulti quando la Nazionale si sta per inabissare.
Dobbiamo metterci d'accordo: o celebriamo come orgoglio nazionale la formazione tipo della Juventus pre-Cardiff (4 italiani di cui 3 over 30) e in tempi più recenti del Napoli di Sarri (2 italiani di cui un oriundo) o puntiamo poi il dito contro le realtà troppo esterofile e nemiche della crescita del movimento nazionale: ambo le cose, come evidente, non si possono fare.
Anche a livello giovanile, la situazione è catastrofica praticamente da tutti i punti di vista: il fatto che i campionati Primavera, ma anche le categorie inferiori, siano invase da giocatori stranieri è visibilmente legata al fatto che gli stranieri costano molto meno e permettono di mettere a segno plusvalenze di gran lunga superiori che nella maggior parte dei casi fanno la differenza sulla boccheggiante situazione economica di moltissimi club italiani.
Inutile parlare di esterofilìa e fascino dell'esotico, questa non è una libera scelta: sarebbe come vietare alle imprese italiane di portare all'estero interi reparti o direttamente la sede amministrativa per favorire il made in Italy a scapito del loro guadagno. La tendenza è radicata, nelle imprese come nel calcio, semplicemente perché non esiste una struttura sostenibile alla base e la sopravvivenza passa anche da questo tipo di decisioni.
Sempre parlando di Campionati Primavera, evidenziamo una volta di più che tra il livello giovanile e il livello professionistico c'è di mezzo un mare profondo quanto l'Oceano Indiano: il salto nella maggior parte dei casi fallisce perché chi esce dal settore giovanile non è assolutamente pronto per uno sport completamente diverso come il calcio professionistico.
Non è più un mistero il ritardo che l'Italia ha accumulato nel settore giovanile rispetto ad altri paesi: si può anche qua superficialmente dire che è una generazione sfortunata, che i Maldini, i Totti, i Nesta non nascono più ma la verità è che non crescono come se fossero in altri paesi: spesso viene citato l'esempio della Germania, che nel 2000 decide di fare tabula rasa (peraltro avevano vinto l'Europeo solo 4 anni prima) ed istituire una rete di centri federali che viaggiano sulla stessa lunghezza d'onda, con gli stessi standard qualitativi e con gli stessi fondamenti pena pesanti sanzioni ai club che non si adeguano,  ma anche la Francia ha un programma federale molto simile per struttura e qualità che permette poi di disporre di almeno una quarantina di giocatori sotto i 25 anni che si possono esprimere ad alto livello.

Senza avventurarci nell'inferno delle categorie inferiori alla Serie A, dove tra le altre cose spicca la realtà in cui ci sono giocatori che pagano di tasca propria per poter giocare, se consideriamo solo il fatto che dopo il pesante fallimento mondiale del 2014 abbiamo preferito le multiproprietà (che si possono permettere forse in due o in tre) rispetto all'istituzione delle seconde squadre, la conclusione che ne traggo è banale quanto trita: l'Italia non mostra alcun interesse a crescere collettivamente, ma è sempre rivolta al guadagno individuale.

Queste riflessioni possono essere condivisibili o no, ma non è questo il punto che voglio far emergere: il punto è che avrei potuto giungere ad identiche conclusioni quasi dieci anni fa.
Perché comunque la vogliate girare, comunque vada Italia-Svezia di questa sera, comunque vada poi a finire l'eventuale avventura mondiale, non ci diciamo e non ci diremo nulla di nuovo: noi eravamo, siamo e rimaniamo questi.
Avvitati su vizi di cui tutti sono consapevoli ma che nessuno è disposto a perdere, cristallizzati su disastri strutturali di cui amiamo dimenticarci preferendo vivere alla giornata quando la Nazionale non è in auge, basati su un sistema insostenibile che ripete gli stessi errori per poter pagare gli stessi dividendi agli stessi soggetti.
Siamo questi e questi rimaniamo.






Nessun commento:

Posta un commento